La presenza di Orfeo ed Euridice in Virgilio e Quasimodo

i1. Episodio di Orfeo ed Euridice in Virgilio

2. Salvatore Quasimodo – Dalla Silloge ” La vita non è sogno” Dialogo

3.Traduzione quasimodea dell’episodio virgiliano di Orfeo ed Euridice

4. L’interpretazione di Orfeo in Blanchot

VIRGILIO
At cantu commotae Erebi de sedibus imis
umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum,
quam multa in foliis avium se milia condunt,
vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber,
matres atque viri defunctaque corpora vita
magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae
impositique rogis iuvenes ante ora parentum;
quos circum limus niger et deformis harundo
Cocyti tardaque palus inamabilis unda
alligat et noviens Styx interfusa coercet.
Quin ipsae stupuere domus atque intima Leti
Tartara caeruleosque implexae crinibus angues
Eumenides, tenuitque inhians tria Cerberus ora
atque Ixioni vento rota constitit orbis.
Iamque pedem referens casus evaserat omnis,
redditaque Eurydice superas veniebat ad auras
pone sequens (namque hanc dederat Proserpina legem),
cum subita incautum dementia cepit amantem,
ignoscenda quidem, scirent si ignoscere manes:
restitit Eurydicemque suam iam luce sub ipsa
immemor, heu, victusque animi respexit. Ibi omnis
effusus labor atque immitis rupta tyranni
foedera terque fragor stagnis auditus Averni.
Illa: « Quis et me » inquit « miseram et te perdidit, Orpheu,
quis tantus furor? En iterum crudelia retro
fata vocant conditque natantia lumina somnus.
Iamque vale: feror ingenti circumdata nocte
invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas… ».
Dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras
commixtus tenues, fugit diversa neque illum
prensantem nequiquam umbras et multa volentem
dicere praeterea vidit; nec portitor Orci
amplius obiectam passus transire paludem.
Quid faceret ? Quo se rapta bis coniuge ferret?
Quo fletu manes, quae numina voce moveret ?
Illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba.
Septem illum totos perhibent ex ordine menses
rupe sub aeria deserti ad Strymonis undam
flevisse et gelidis haec evolvisse sub astris
mulcentem tigres et agentem carmine quercus;
qualis populea maerens Philomela sub umbra
amissos queritur fetus, quos durus arator
observans nido implumes detraxit; at illa
flet noctem ramoque sedens miserabile carmen
integrat et maestis late loca questibus implet.
Nulla Venus, non ulli animum flexere hymenaei
Solus Hyperboreas glacies Tanaimque nivalem
arvaque Riphaeis numquam viduata pruinis
lustrabat, raptam Eurydicem atque inrita Ditis
dona querens; spretae Ciconum quo munere matres,
 
inter sacra deum nocturni orgia Bacchi
discerptum latos iuvenem sparsere per agros.
Tum quoque marmorea caput a cervice revulsum
gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus
volveret,Eurydicem vox ipsa et frigida lingua,
ah, miseram Eurydicem anima fugiente vocabat,
Eurydicem toto referebant flumine ripas.
 
( Virgilio- Georgiche- libro IV vv.471-527)

  Traduzione quasimodea dell’episodio virgiliana
 
E subito dal più profondo Erebo,commosse dal canto,
ombre venivano leggere e parvenze di morti:
a migliaia, quasi stormi di uccelli che si posano
tra le foglie, quando la sera o l’aspra pioggia d’inverno
li caccia giù dai monti; donne e uomini, e corpi
di magnanimi eroi morti, e fanciulli e fanciulle,
e giovani arsi sul rogo davanti ai genitori.
E ora il fango nero e la squallida canna del Cocito,
e la palude lurida con la sua acqua pigra
ti stringe d’intorno, e lo Stige con nove giri li rinserra.
Stupirono le case di Lete e i luoghi più remoti
del Tartaro, e le Eumenidi dai capelli azzurri di serpi;
e Cerbero restò muto con le tre bocche aperte,
e la ruota d’Issione si fermò insieme al vento.
E già Orfeo tornava, vinto ogni pericolo,
ed Euridice veniva verso la luce del cielo
seguendolo alle spalle (così impose Proserpina),
quando una follia improvvisa lo travolse,
da perdonare, certo, se i Mani sapessero perdonare.
Orfeo già presso la luce, vinto d’amore,
la sua Euridice si voltò a guardare.
Così fu rotta la legge del duro tiranno,
e tre volte un fragore s’udì per le paludi d’Averno
. ‘Quale follia” ella disse, “rovinò me infelice,
e te, Orfeo? Il fato avverso mi richiama indietro,
e il sonno della morte mi chiude gli occhi confusi
. E ora, addio: sono trascinata dentro profonda notte,
e non più tua, tendo a te le mani inerti.”
Disse; e d’improvviso svanì come fumo nell’aria
leggera, e non vide più lui che molte cose
voleva dirle e che invano abbracciava le ombre;
ma chi traghetta le acque dell’Orco
non gli permise più di passare di là dalla palude.
Che poteva egli fare? Dove andare ora che la sposa
gli veniva tolta ancora con violenza? Con quale
pianto impietosire i Mani, con quale canto i numi?
Orma fredda, navigava nella barca dello Stige
Dicono che Orfeo pianse, per sette mesi, senza quiete
sotto un’alta rupe in riva al deserto Strimone,
e che narrò le sue pene dentro gelidi antri,
facendo mansuete le tigri,
e traendosi dietro le querce col canto.
Così dolente usignolo tra le foglie di un pioppo
lamenta i figli perduti, che crudele aratore
tolse dal nido, ancora senza piume; e piange
più la notte, e ripete da un ramo il canto desolato,
e le valli riempie di melanconici richiami.
Nessun amore, nessuna lusinga di nozze,
persuase l’animo d’Orfeo. E andò per i ghiacci boreali
. per il Tànai nevoso e le terre dei Rifei
sempre coperte di gelo, lamentando Euridice
e l’inutile dono di Dite. E le donne dei Ciconi,
sdegnate per l’amore respinto,
nelle orge notturne, durante i riti di Bacco,
dispersero per i campi le sue membra dilaniate.
Anche quando il capo, staccato dal candido collo,
l’Ebro Eagrio portava travolgendolo nei gorghi,
la voce, e la lingua ormai gelida: “Euridice”,
chiamava mentre l’anima fuggiva: “O misera Euridice”
. “Euridice”, ripetevano le rive lungo il fiume. »

Il mito di Orfeo nell’interpretazione di Blanchot

La fondazione esistenziale nell’analisi strutturale
 Senso o non senso della scrittura? (Blanchot, Barthes).
 
A cogliere la differenza fra lo strutturalismo ‘ontologico’ e quello che proponiamo di chiamare ‘esistenzialle’, è particolarmente adatta l’opera di Maurice Blanchot…………………………….. ……………………………………………………………………………………………………….
Per Blanchot, la struttura è certamente un “essere”, ma né alla maniera metafisica, né in quella di Levi-Strauss (come cioè un’entità che viene alla luce attraverso un lavoro di `laboratorio’), bensì come un fenomeno di esistenza del soggetto, per il quale l’opera ha un senso soltanto quando comincia ad “essere’” per un soggetto che la sperimenta sul piano della vita o nello scriverla o nel leggerla: “Lo scrittore scrive un libro, ma il libro non è ancora l’opera, l’opera non è tale se non quando in essa, nella violenza di un convincimento che le è proprio, si pronuncia la parola “essere”: evento che si compie quando l’opera è l’intimità di qualcuno che la scrive e di qualcuno che la legge”.
In questa ricerca dell’Essere, al di là dell’apparenza fenomenica, in questa apertura dell’opera all’Essere e quindi in questa comunione tra chi scrive e chi legge, nell’intimità dell’opera, riecheggia la filosofia esistenzialistica di Heidegger, fondata sull’idea del primato di quell’Essere che è presente nell’esistenza dell’uomo. “L’essere” afferma Heidegger – è senz’altro presupposto da tutte le ontologie finora esistite: ma non- criterio disponbile, bensì come di ciò di cui si va alla ricerca”.  E questa ricerca dell’essere è propria di Blanchot: l’essere è quel qualcosa, quel concetto, e quindi quella struttura che fa sì che l’opera, nel suo divenire tale, cerchi se stessa.
A questo proposito si può ricordare che Heidegger precisava che non è sufficiente, per spiegare il mondo, il trovarne l’essere, ma che è necessario trovare il `senso’dell’Essere……Ogni artista per Blanchot è un Orfeo che discende negli oscuri meandri dell’essere verso Euridice, che è “ per lui, l’estremo dell’arte che possa raggiungere”, è il senso dell’Essere…………………L’ontologia per Blanchot è quindi una continua ricerca dell’essere. “Il mito dimostra –egli scrive ancora –ugualmente che il destino di Orfeo è anche di sottomettersi a questa legge ultima; e certamente , volgendosi verso Euridice, Orfeo distrugge l’opera, l’opera si disfa, ed Euridice ritorna nell’ombra”.  Il guardare Euridice è l’ispirazione, è cioè il momento in cui lo scrittore antistrutturalistícamente dimentica l’opera, per richiamarsi a qualcosa che la supera ; e la comprende, cioè all’Arte, all’Essere; in quello stesso momento “1’opera è perduta”, ma in quello sguardo essa riesce a “superarsi”, ad “unirsí” alla sua origine e consacrarsi nell’impossibilità”. Lo sguardo quindi è l’ultimo dono di ogni artista alla sua opera, ma è anche il momento solenne in cui la sacrifica. Lo sguardo può così davvero paragonarsi alla heideggerianaricerca del senso dell’essere che non può non essere il compito fondamentale dell’artista, anche in questa sua rinuncia all’opera. “Scrivere – dice Blanchot – comincia con lo sguardo di Orfeo… Ma per arrivare a questo istante, Orfeo ha avuto bisogno della potenza dell’arte”. ‘ L’opera di per sé è muta. Nel momento in cui l’artista si rivolge verso l’Essere, l’ìncantesimo si compie; l’ispirazione è la negazione dell’opera in sé e per sé, ma l’opera sollecita l’ispirazione, il legame cioè con la “struttura ontologica dell’esistenza” ……………………………………………………………………………………….Ci sembra esatta l’affermazione di Perlini “Blanchot si muove in un cerchio, affascinato come la farfalla intorno al fuoco della candela, attratto irresistibilmente dal volto meduseo della filosofia heideggeriana ed in questo senso si pone “ al di là dell’ambito razionalistico entro cui andrebbero circoscritte le recenti esperienze della cosiddetta nouvelle critique”
Soprattutto tra Blanchot e gli strutturalísti c’è di mezzo, come abbiamo visto, Heidegger e l’esigenza di filtrare ì temi dello strutturalismo attraverso la problematica esistenzialista. L’imbarazzo della critica sembra così riprodurre il circolo chiuso della teoria stessa di Blanchot ed è un cerchio fatato in cui finisce con l’essere coinvolto anche il lettore. Blanchot, cioè, si scaglia contro la lettura “banale”; questo tipo di lettura fa del libro, cioè dell’opera modellata dagli uomini, quello che il mare e il vento fanno della pietra: la rendono più liscia: “il frammento caduto dal cielo, senza passato, senza avvenire, sul quale non ci poniamo domande quando lo vogliamo”.” Ma se questo per Blanchot è possibile per il ” libro non letterario” (che è il libro scritto per essere letto così), non lo è per il libro che “ha origine nell’arte”; questo libro non è un significante di una rete di significati, non ha quindi, né può avere una sua struttura-modello, ma è un non-senso, nella misura in cui “non ha la sua garanzia nel mondo, e quando viene letto non è stato mai letto, pervenendo alla sua presenza di opera soltanto nello spazi aperto da una lettura unica che ogni volta è la prima e la sola”.  In termini heideggeriani, il libro non può quindi avere una struttura né ontica’ (cioè di ciò che è alla maniera delle cose), né metodologica, ma sola una struttura ontologica (cioè di ciò che é alla maniera dell’esistenza) e quindi esistenziale dell’essere: “Ogni ontologia, per quanto disponga di un sistema di categorie ricco e ben connesso, rimane, in fondo, cieca e falsante rispetto al suo `intento’ più proprio, se non ha in primo luogo sufficientemente chiarito il senso dell’essere e se non ha concepito questa chiarificazione come il suo compito fondamentale”.’ Anche Blanchot non si accontenta di rintracciare la struttura come essere, bensì ritiene necessario trovare il senso di essa: per Heidegger il senso dell’essere è un concetto essenzialmente etico (la Cura), per Blanchot il senso dell’essere è l’arte. Ogni artista per Blanchot è un Orfeo che discende negli oscuri meandri dell’essere, verso Euridice, che è “per lui, l’estremo che l’arte possa raggiungere”, è il senso dell’essere. Ma la sua opera non è un semplice  avvicinamento a questo `punto’ scendendo verso la profondità”, ma è una continua “apertura” (termine heideggeriano) dell’Essere: “La suaopera è di riportarlo [il `punto’] al giorno e di dargli, nel giorno, forma, figura e realtà”.  In questo modo Blanchot denuncia la crisi di quella che abbiamo chiamato la `ontologia senza essere’, e nel contempo la supera:Il  mito greco dice: si può produrre un’opera solo se l’esperienza smisurata della profondità non è perseguita per se stessa. La profondità non si consegna apertamente, e si rivela solo dissimulandosi nell’opera”. L’ontologia per Blanchot è quindi una continua ricerca dell’essere. Ma appunto in questo superameto dello strutturalismo ontologico per mezzo dell’esistenzialismo heideggeriano c’è anche il limite, forse più vistoso, dell’`esistenzialismo’ di Blanchot. “Il mito dimostra – egli scrive ancora – ugualmente che il destino d’Orfeo è anche di non sottomettersi a questa legge ‘ultima'; e, certamente, volgendosi verso Euridice, Orfeo distrugge l’opera, l’opera immediatamente si disfa, ed Euridice ritorna.”
Tratto da  G. Puglisi: Che cosa è lo strutturalismo- Ubaldini editore 1970 pp.63 sgg.

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