Verso l’ermeneutica

  Verso l’ermeneutica
    Cap.I
   I prodromi dell’ermeneutica
  Cap.II
  Dallo strutturalismo alla filosofia del linguaggio
  “Dal corso di lezioni:i Modelli dei testi: analisi dei testi letterarari-
   cl.51 a e 52 a- SISSIS- Università degli Studi di Palermo-
   Anno acc.2006-2007”
  Docente: Prof. Salvatore Coico

Cap. I
I prodromi dell’ermeneutica

Lo studio moderno sulla teoria della Letteratura risale al 1948 con il testo di Wellk e Austin, che propone una varietà di itinerari metodologici nel campo della critica e dell’analisi testuale e comprende l’interferenza tra indagini diversificate dalla semiologia alla critica psicoanalitica e allo strutturalismo.
L’opera accoglie, inoltre, le tesi esposte dalla critica formalista russa (1916-30) e dal Circolo di Praga (1929).
 Gli studiosi  si pongono interrogativi ancora presenti ai nostri giorni “Che cos’è letteratura?”, “Che cosa  non ?” ” Qual è la sua essenza?” Ai fini della valutazione dell’opera letteraria così opinano: “Gli uomini dovrebbero valorizzare la letteratura per essere quella che è e dovrebbero valutarla sulla base del suo valore letterario e su di essa misurarla……….Una data opera è o non è letteratura non già sulla base degli elementi che la compongono, ma di come sono combinati e con quale funzione.”
Dal che si evince chiaramente che la valutazione di un’opera letteraria non può prescindere dal concetto di letteratura e/o di letterarietà presente in ogni tempo e di cui si sente l’inalienabile esigenza oggi.
In tempi recenti Remo Cesarani, proponendosi di chiarire la funzione della Letteratura nell’età contemporanea, e, soprattutto la sua relazione con il lettore, analizza due posizioni contrapposte dei teorici della critica letteraria.
La prima posizione si desume dalla tesi sostenuta da quelli, che sono soprattutto interessati a diffondere l’autonomia dell’esperienza letteraria e a separarla da altre forme di comunicazione umana.
In quest’ottica si privilegia la specificità del discorso letterario e/o della poeticità della parola avvertita come assoluta, unica, irrepetibile e rivolta ad un pubblico di competenti.
Conseguentemente l’opera della grande e vera letteratura, pur essendo creata da singoli autori ed in precisi momenti storici, ed essendo stata originalmente trasmessa  in forma e modalità diverse, ha un carattere di universalità; si stacca dalla contingenza storica ed esprime valori ed interessi permanenti ed eterni nell’uomo…..sono-monumenti che possono parlare alla generazioni future ed essere apprezzate dalla cultura e dalle società più diverse.
Possiamo senz’altro concordare col principio che un’opera di vasto respiro, come la Commedia di Dante può essere considerata monumentum, mentre altre, che rispecchiano un ambito storico più limitato, possono essere esemplate come documentum.
Questa distinzione era anche presso la cultura classica. Ma senza nulla togliere al carattere dell’universalità dell’arte (monumentum) chi ci dice  che anche il documentum, legato all’hic et nunc, non comprenda lo specifico letterario?
Condividiamo, invero, la tesi del Cesarani che in ” Guida allo studio della Letteratura”-Laterza-1999- a pag. 13 e sgg” così si esprime:
1.La letteratura ha molte caratteristiche in comune con altre forme di comunicazione umana. In particolare, in quanto atto di discorso, essa ha in comune con altre forme di discorso (quello semplicemente comunicativo, quello comunicativo ed espressivo, quello meditativo, quello persuasivo), l’uso di una lingua naturale e l’utilizzazione di quegli artifici e figure, quello, che già dal mondo antico ha descritto e classificato nell’ambito dell’arte retorica.
2. La letteratura è una delle tante forme dell’immaginario umano, ha affinità con altre forme ed altri modelli di simbolizzazione e trascrizione culturale della realtà…………..I prodotti letterari…………. si originano dalla cultura del tempo e dall’immaginazione.
3. L’attribuzione di qualità letteraria e di valore poetico è un atto dipendente da concezioni ed atteggiamenti che cambiano nel tempo e nella diverse situazioni sociali e culturali.
A supporto delle sue tesi il Cesarani offre come exemplum classico quello della Bibbia, considerato per tanto tempo e per diverse generazioni   un testo soltanto teologico e poi, in età recente con il sussidio degli studi filologici e storici, un documentum storico  contenente le vicende di un popolo, le testimonianze della vita dei re, dei profeti e la stessa vita di Gesù Cristo.
La critica moderna insiste sempre più nella concezione di una letteratura “immersa nel  complesso e variegato sistema delle attività espressive, rappresentative e comunicative dell’uomo e dei sistemi di valori etici ed estetici mutabili nel tempo oltre che dei sistemi culturali e dei modelli epistemologici, che essi diffondono” (Cesarani op.cit. pag.14).
Le congetture critiche suesposte, inoltre, trovano conferma in W. Benjamim, che afferma “che il problema non è più di presentare le opere letterarie  in rapporto al proprio tempo, ma di rendere evidente nel tempo, che le ha visto nascere, il tempo che le conosce e le giudica cioè il nostro”.
Il rapporto intrinseco tra letteratura e tempo,inoltre, ci induce a meditare sul connubio tra l’arte e l’essere e tra l’essere e il linguaggio. Al riguardo Heidegger dice ” Il linguaggio è la casa dell’Essere………..Nella sua dimora abita l’uomo”.
Il che c’induce a propendere, oggi nello studio letterario e nell’analisi testuali, a focalizzare l’attenzione al principio di storicità del testo, letto ed interpretato attraverso tutte le sue variabili da quello ideologico-culturali a quelle linguistico-formali.
L’universo letterario, oggi, si presenta come momento fondante per i processi di formazione e di conoscenza  per l’uomo contemporaneo con significative implicanze anche nell’ambito didattico.
Si afferma sempre più precipuamente, nell’ambito dello studio della critica letteraria ed in ispecie nell’analisi testuale, l’idea di voler interpretare l’opera letteraria nella complessità di tutte quante le componenti storico-ideologiche riferibili all’Essere e semantizzate col linguaggio all’esistente psicologico, antropologico-sociale vissuto dall’uomo.
I teorici dell’ermeneutica  concordano che tutte le attività espressive ed in primis, quelle concernenti  il mondo letterario, corrispondono a sistemi etici e sociali mutabili nel tempo, ma nel contempo ribadiscono il concetto di un continuum, che nella sfera letteraria lega il passato al presente.
Infatti, nell’impostazione critica contemporanea non si nega, anzi si stigmatizza il dialogo col passato e si tende a rinvenire nel testo letterario la presenza di modelli culturali ed epistemologici nonché di archetipi o di specifici canoni; ma tutti questi aspetti extratestuali vengono rivisitati nel fenomenico storico.
Invero l’opera letteraria, in quanto polisemica, deve essere letta sul piano sincronico e diacronico. Ma  quale deve essere, allora, l’approccio del lettore nei confronti del testo letterario? Come comprendere dell’opera letteraria il suo polisenso di universalità e di contemporaneità?
Illuminante al riguardo ci pare l’ammonimento di R. Barthes “interrogare il testo in forma polisemica evitando l’arroccamento a schemi rigidi e leggere nel testo interlivellazioni di elementi segnico-formali e componenti storico-ideologiche”.

 Si perviene, pertanto, alla  convinzione che  nell’età odierna il testo letterario non è più statico e determinato in canoni prefissati, ma in movimento e che, in quanto tale, continua sempre ad acquistare possibilità segniche e conseguenti variabili interpretative.
Se, in effetti, consideriamo lo spazio cinetico del testo letterario, non intendiamo privilegiare il fluire della storicità, in cui il medesimo è immerso, ma  cerchiamo di comprendere la  globalità delle vicende umane vissute dall’uomo e che hanno il  loro paradigma nel passato.
Ed è proprio per questa ragione che la lettura di un testo, previi tutti gli accorgimenti metodologici proposti dai teorici della critica letteraria e della linguistica, non può preterire dalla complicità del lettore, che scopre nello scritto d’autore, anche attraverso diversificazione di codici linguistici, trame della sua esistenza.
Autore-testo-lettore nella moderna concezione sono un sinolo per una corretta impostazione ermeneutica.
Questo principio trova la sua applicazione nel progetto educativo dello studio della Letteratura Italiana nell’età odierna negli istituti di istruzione secondaria e nelle università.
La “centralità” del testo letterario, infatti, oltre a tradursi nell’acquisizione di una competenza culturale polisemica, profondamente avvertita dalla generazione presente, sottende  un’armonica interazione tra autore e lettore.
Il che ha senz’altro positive ricadute sulla formazione integrale di chi, appressandosi allo studio della letteratura, non soltanto legge il testo, ma lo interpreta, rivivendolo dal suo interno.
Nella strategia interpretativa, ai nostri tempi, si tende a far prevalere il concetto della soggettività del giudizio di valore e dell’autonomia dell’interpretazione critica, ma al contempo si propugna un corretto ed aggiornato metodo filologico.
Non si può, infatti, negligere la grande importanza che la filologia ha avuto e continua ad avere nella storia dei secoli ed in particolare per la critica testuale, nella quale si appunta massimamente l’attenzione allo”studio della parola”.
Della filologia nell’età contemporanea si tende ad escludere la corrente positivista, che si è sviluppata nei primi decenni del Novecento, e la cui utilità è stata quella di fornirci una congerie di dati senza pervenire ad  alcuna forma di ermeneutica.
La scuola  filologica positivista appare parziale in quanto mancante della sua parte essenziale, cioè dell’ interpretazione critica e del giudizio estetico.
E proprio contro la corrente filologica positivista polemizza in modo sferzante il Croce, che per l’appunto reputa i rappresentanti di tale indirizzo metodologico di studio, “simili a muli che portano nel dorso un carico pesante senza avere la capacità di distinguere se il loro carico è costruito da oggetti preziosi oppure da materiale grezzo, insignificante, privo di valore”.
Invero il Croce non intendeva rinnegare tutta la filologia, non certamente la “filologia della parola”, ma soltanto quella parte di essa, che escludeva dall’opera d’arte il giudizio ermeneutico-estetico.
Nell’età contemporanea si tende ad un theorein omnicomprensivo dell’opera d’arte, dove filologia e filosofia sono complementari e la stessa “filologia della parola” si raccorda alla storicità in senso sincronico e diacronico.
Illuminante ci appare al riguardo il giudizio di G. Pasquali, che in (Storia della  tradizione e della critica del testo-Le Monnier -1962) dice: “In primo luogo sono convinto che almeno nella scienza dello spirito non esistano discipline severamente delimitate, “scomparti” scomposti, ma soltanto problemi, che devono essere desunti delle varie discipline”.
Le parole dell’illustre filologo c’inducono a riflettere sul concetto di polisemia culturale,   sui processi intertestuali, metatestuali ed extratestuali nonché sulla dinamica linguistica, componenti tutte queste, che materiano ogni testo letterario.
Tutte le scienze dello spirito sono compresenti nell’opera letteraria dalla storia alla filosofia alla comunicazione verbale.
E, pertanto, deve essere peculiare compito del lettore-critico quello di individuare tutti gli aspetti dell’opera letteraria, come ammonisce Husserl ” in un’ unità strutturale, ma non dogmatica”
La finalità, che ai tempi odierni si propone lo studioso della Letteratura  protende, come opina Barberi Squarotti: “nel riconoscimento parallelo e diverso che storia e letteratura compiono nella loro indagine, con i loro specifici strumenti di sondaggio e di illuminazione dei fenomeni umani”.
Soffermandoci sulle ultime parole citate espresse da Barberi Squarotti  “specifici strumenti di sondaggio e di illuminazione dei fenomeni umani” non possiamo non riportarci alla funzione del linguaggio e della parola intelle- gibili nella loro relazione col mondo antropologico-sociale e/o colla soggettività espressa dall’autore a manifestazione del proprio io individuale nei confronti della natura e della storia.
Gli studi recenti ci offrono strumenti metodologici per un’indagine critica che simultaneamente interagisce tra “scienza della linguistica” e “teoria dell’ermeneutica”
Necessita, invero, interrogare il testo letterario, ma è fondamentale non tradire mai la parola dell’autore; il che equivale a tradire la vita stessa del pensiero e tutti quanti i moti dell’anima e del sentimento semantazzati nella pagina scritta.
Il problema  nell’età dell’Umanesimo era stato chiaramente compreso da  L.Valla, che nelle Elegantiae, dice: “Solo la conoscenza della parola, solo lo studio filologico e storico può restituire l’intima vita di ogni forma di pensiero colto nella sua prima formazione, seguito nei suoi  diversi svolgimenti sino agli esiti più vicini.”
Il giudizio espresso dal Valla ci sorprende per la sua attualità e ci spinge a meditare sull’importanza, che la parola ha sempre avuto nell’evolversi dei secoli e il “suo farsi”  attraverso la realtà fenomenica e la storia.
Ci stiamo sempre maggiormente interessando al problema del linguaggio e della parola ed, andando indietro nel tempo, non possiamo non ricordare  le teorie esposte al riguardo da Platone.
Platone nel Cratilo, affrontando il problema del linguaggio, come afferma N. Abbagnano- (Storia della filosofia-editio miaor-Utet-1948 a pag.83) “non ritiene che il linguaggio sia prodotto di convenzioni e che i nomi siano imposti ad arbitrio. Come ogni strumento deve essere adatto allo scopo per il quale è costruito, così il linguaggio deve essere idoneo a farci discernere la natura delle cose. Non c’è dunque dubbio dunque che ogni nome deve avere una certa giustezza cioè deve imitare ed esprimere a mezzo di lettere e sillabe, la natura delle cose significate”. 
   Il Cratilo, infatti, tratta principalmente del rapporto tra le parole e le cose. Interlocutori sono Cratilo, primo maestro di Platone, che vede questo rapporto nella natura colle cose, mentre il parmideo Ermogene lo postula in una convenzione. Per Platone, che parla per la voce di Socrate, l’attribuzione del nome è parte del parlare e del giudizio, che diamo alla cose (Cratilo 388 c5) “Insomma l’attribuire un nome è parte del parlare. Chi parla, esprime giudizi e ragionamenti, non v’è dubbio alcuno attribuendo un nome alle cose”.
Sul concetto del linguaggio come strumento conoscitivo e pragmatico Platone insiste  ibidem 388c quando dice “Il nome è un particolare strumento, suscettivo di fornire indicazioni; uno strumento suscettivo di far distinto quanto si contiene nelle varie idee, come la spola fa distinto il tessuto”. 
Platone, invero, anche discutendo del linguaggio, non può fare a meno di ricorrere alla teoria delle idee.Si tratta insomma di sostituire alla convenienza che diremo onomatopeica, una convenienza puramente ideale della cosa con la sua oggettività, nel senso che il giudizio significato, dalla parola corrisponda il più esattamente possibile al contenuto dell’idea………….. (Platone- I Dialoghi- a cura di E. Turolla- Rizzoli editore-1953-pag.535).
 Platone, confutando la tesi di Cratilo, per bocca di Socrate dimostra, che se la filosofia è scienza delle ragioni supreme, il filosofo non si limiterà ad indagare la parola per ottenere una serie di radici, in quanto fine ultimo del filosofo è quello di pervenire attraverso il linguaggio a cogliere il valore ultimo degli enti nella loro oggettività.
Ad esemplificazione di quanto abbiamo detto leggiamo il seguente brano dell’opera platonica – 435 a
Socrate- E io emetto in tal  caso un suono e adopero un segno che non ha rapporto di simiglianza con ciò che la mia mente si propone, dato che il suono l (lamda) è dissimile da quella durezza a cui accenni. Se così stanno le cose, è avvenuto che hai finito per abituarti alla cosa, e  la corrispondenza del nome si risolve per te in convenzione, dato che lettere aventi rapporto di simiglianza e lettere che questo rapporto non hanno, vengono ad assumere l’ufficio di segni manifestanti, una volta che intervenga l’abitudine e la convenzione. E pur nell’ipotesi che l’abitudine non abbia nulla da vedere con la convenzione, non sarebbe certo procedimento esatto affermare che simiglianza sola è suscettiva di manifestazione; bensì suscettiva ne è di più l’abitudine. Abitudine, infatti, per naturale conseguenza, manifesta per mezzo della simiglianza e della dissimiglianza.[1]
Cratilo————————–
Socrate- Dal momento che su questo punto siamo d’accordo, o Cratilo (metto il tuo silenzio in conto di un consenso) ne deriva ineluttabile ragione, che convenzione e abitudine concorrano insieme a manifestare ciò che esprimiamo rivolgendone il pensiero alla mente. In realtà, mio veramente ottimo amico, se ti metti a considerare i numeri, dove credi di trovar nomi da riferire a ciascun numero, adatti a esprimer una similitudine, se non ti decidi a lasciare un pò andare le tue conclusioni e non acconsenti che la convenzione abbia una certa importanza sulla retta corrispondenza delle parole? A me persuade assai questa teoria d’una similitudine, per quanto possibile, delle parole con gli oggetti. (traduzione di E. Turolla- op. cit. pp.605-606).
E’ particolarmente significativo che nel brano che abbiamo appena riportato Cratilo risponde a Socrate con il silenzio. I punti di interpunzione riportati sono emblematici di un silenzio colmo di meditazione, in cui s’invera la “giustezza di un’idea ” A me persuade assai questa teoria d’una similitudine, per quanto possibile, delle parole con gli oggetti”. Si comprende chiaramente come anche nel problema del linguaggio prenda sostanza il concetto della mimesi platonica rinvenibile anche nella teoria del Bello Ideale, come si deduce da un brano del Fedro, che riportiamo:
Bisogna che l’uomo sia capace di assurgere a quella che si chiama un’idea, andando da una molteplicità di sensazioni ad un’unità raggiunta col pensiero. Questo è un ricordarsi degli enti che un tempo l’anima nostra ha contemplato, tenendo dietro a un dio, guardando dall’alto le cose che ora diciamo essere, levando il capo verso ciò che veramente è. (Platone Fedro, 249 e)
Non vi è dubbio che sia il concetto  del linguaggio come pure  la teoria del Bello germinano da una medesima matrice speculativa riferibile alla mimesi ed al mito della conoscenza (per Platone gnoskein esti mneumenein)
E seppure, come è noto, Platone non attribuisce un giudizio del tutto positivo all’arte, in quanto vede quest’ultima come figlia della natura e, pertanto ancora più distante dal mondo delle idee, riflesse nella natura e nel pensiero proprio del filosofo, come si desume da un locus immediatamente susseguente al brano succitato:
“E’ dunque giusto che solo il pensiero del filosofo sia alato, poiché, per quanto gli è possibile  si rivolge di continuo a quegli oggetti per cui contemplazione anche un dio è divino. Servendosi rettamente di tali ricordi, un uomo sempre iniziato a perfetti misteri diventa perfetto”.
Non v’è dubbio che le teorie platoniche sia quelle concernenti la funzione del linguaggio che quelle del Bello Ideale assumono un valore categoriale ed una valenza estetica nel tempo ed attraverso il tempo.
Il presupposto della mimesi  nell’arte è anche in Aristotele. Questo è il solo punto in cui lo stagirita si avvicina alla filosofia del suo maestro Platone, da cui, però, nell’evoluzione del suo pensiero, si distacca anche in virtù della mutata concezione gnoseologica.
Per  Aristotele, infatti, il mondo sensibile, che l’arte imita, non è semplice apparenza (copia imperfetta delle idee), ma realtà, che viene concepita come sinolo di materia e forma.
Ne consegue che il carattere imitativo dell’arte non viene relegato soltanto nella sfera del mito o talora  nell’illusorietà di una parvenza, ma assume una connotazione al contempo conoscitiva  ed etica.
Aristotele, inoltre, conferisce all’arte un  valore educativo ed una funzione catartica.
Riguardo ai modi dell’imitazione, dando origine ai canoni letterari della tragedia e della commedia,   Aristotele dice che ci si può volgere nei modi dell’arte o narrativamente  o drammaticamente.
L’attenzione di Aristotele nella Poetica, come possiamo leggere nella parte, che ci è pervenuta, s’incentra sulla tragedia definita “un’azione seria e compiuta in se stessa, che abbia un linguaggio ornato in proposizioni diverse a secondo delle diverse parti, si svolga in mezzo a personaggi, che agiscano nella scena, e non che narrino, e infine produca, mediante casi di pietà o di terrore, la purificazione da tali passioni”.
Oggetto della tragedia per il filosofo, che precorre una problematica. destinata a perdurare nel tempo, non é il vero, ma il verosimile, che ritiene possa verificarsi “secondo simiglianza e necessità”.
La storia, invero, narra i fatti, e quindi il particolare, mentre la poesia, sempre secondo il principio aristotelico, e, massimamente quella presente nella tragedia, esprime l’universale.
Grande importanza il filosofo attribuisce anche alla musica, che congiuntamente alla poesia, è un potente mezzo di educazione e porta alla sollevazione dell’animo in alto ed alla sua purificazione (catarsi).
Ma adesso, dopo le nostre generiche enunciazioni è opportuno, per meglio chiarirci le idee, di far parlare direttamente l’autore della Poetica, che nella sua opera (I, 4 e 9) ci riferisce:
L’epopea e la tragedia, come pure la commedia e la poesia ditirambica, e gran parte dell’auletica e della citaristica, tutte quante considerate da un unico punto di vista, sono mimesi (o arti di imitazione) [2] Ma differiscono tra loro per tre aspetti e cioè in quanto imitano con mezzi diversi, o imitano cose diverse, o imitano in maniera diversa e non allo stesso modo…………………………Due sembrano essere, in generale, le cause che hanno dato origine alla poesia e tutte e due sono proprie della natura umana. La prima causa è questa. L’imitare è un istinto di natura comune a tutti gli uomini fin dalla fanciullezza; ed è anzi uno dei caratteri onde l’uomo si differenzia da tutti gli altri esseri viventi in quanto egli è di tutti gli esseri viventi il più incline all’imitazione [3]………………………la seconda causa è questa. Essendo naturale in noi non pur la tendenza a imitare “mediante il linguaggio” l’armonia e il ritmo.-i metri che sono si sa bene che sono varietà del ritmo, -così è avvenuto che coloro i quali fin da principio avevano per queste cose, più degli altri, una loro disposizione naturale, procedendo. poi, con una serie di lenti e graduali perfezionamenti, dettero origine alla poesia, la quale appunto si svolse e perfezionò da rozze improvvisazioni.[4] 
……………………………Ufficio del poeta non è descriver cose realmente accadute, bensì quali possono [in date condizioni] accadere: cioè cose le quali siano possibili secondo le leggi della verisimiglianza o della necessità.Infatti lo storico e il poeta non differiscono perché l’uno scriva in versi e l’altro in prosa…..la vera differenza é questa, che lo storico descrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere, Perciò la poesia è qualcosa di più filosofico e di più elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare.[5]
 
Dopo aver letto le  parole del filosofo, che ci inducono a riflettere sull’universalità dell’opera d’arte, siamo convinti, facendo nostro il giudizio critico del Gadamer che “in virtù di tale universalità l’arte per Aristotele, non si traduce in un semplice gioco formale, ma tende a configurarsi come una rappresentazione dell’essenza delle cose, alla stregua di un’attività dotata di un’eminente funzione conoscitiva. Da ciò il suo ausilio a “comprendere l’uomo. (H. G. Gadamer- Verità e metodo-Bompiani-Milano 1983.p.147)   
 E’ da rivelare che l’insegnamento della dottrina platonica e di quella aristotelica perdura nel tempo sino all’età coeva anche con particolare riguardo alla classificazione dei generi letterari. Leggiamo nel testo di E. Raimondi e L.Bottoni- Teoria della letteratura a pag. 39 e 40-ed. mulino-1980-
Di natura descrittiva, le moderne classificazioni dei generi letterari muovono dalle caratteristiche strutturali delle opere piuttosto che dai canoni prescrittive delle “poetiche” e questo consente l’integrarsi di due metodi: quello induttivo che prende atto di un sistema prevalente in una data epoca, quello deduttivo che verifica la loro esistenza avvalendosi di una teoria del discorso letterario.Si tratta dello schema tradizionale alla Poetica aristotelica e alla distinzione platonico-socratica fra presentazione diretta (diegesis), rappresentazione impersonale (mimesis) e stile misto in cui i personaggi e il poeta si alternano con i locutori. Ma, come è ormai acquisito, da un lato il concetto di stile ha per controparte il concetto di argomento, dall’altro Aristotele considera le categorie platoniche rilevanti solo per i modi dell’imitazione, non per i mezzi e gli oggetti, che essa  trasceglie. La cornice concettuale può divenire quindi policentrica esaminando come il potere evocativo del discorso si generi e si disponga tra i due poli della presentazione autorale tematica (diegesis) ed il polo della rappresentazione drammatica intersoggettiva (mimesis).
Gli esiti critici enunciati ci appaiono di peculiare interesse per poter intessere anche nella lettura dei testi moderni un dialogo con gli antichi filosofi e per poter individuare gli aspetti normanti  delle loro teorie oggi rivisitate in forma complementare.
Ai tempi odierni si tende anche a superare quella netta distinzione tra platonismo ed aristotelismo codificato da generiche formule contenute nei manuali scolastici. E se è pur vero che l’opera dantesca è sostanziata dalla filosofia tomistico-aristotelica, mentre quella petrarchesca è permeata dall’influsso platonico-agostiniano, è tuttavia possibile rinvenire nell’uno e nell’altro autore la compresenza di componenti segniche e modi ideativi comuni, sia pure con differenziazioni di inventività poetica  e di resa estetica.
Al fine di esemplificare questo enunciato cerchiamo di intertestualizzare alcuni versi dalla Commedia di Dante con altri desunti da Chiare, fresche, dolci acque del Petrarca.
  Petrarca -da “Rerum vulgaria fragmenta Chiare, fresche, dolci acque w.40-52
Da’ bei rami scendea,
dolce nella memoria
una pioggia di fior sorva ‘l suo grembo
ed ella si sedea 
umile in tanta gloria,
converta già dell’amoroso nembo;
qual fior cadea sul lembo,
qual su le trecce bionde,
ch’oro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra e qual su l’onde,
qual con vago errore
girando parea dir “Qui regna amore”.
 
Dante -dalla” Commedia” – Purgatorio canto XXX vv.28-39.
…..dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadea in giù dentro e di fiori,
sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.
E lo spirto mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la presenza 
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei si mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza
Entrambi i poeti raffigurano la propria donna attraverso una simbologia naturalistica, che diventa tutta psicologica ed interiore e che si traduce,come dice il Sapegno, a proposito della lirica petrarchesca in un mito fantastico che ha insieme il calore e la freschezza della realtà e la vaporosa idealità di una visione : la visione dell’amore.
I due poeti, realizzando in forma di elevata poesia  il  principio della mimesi platonica, attraverso la natura sensibile tra tono narrativo e drammatico descrivono il librarsi dell’animo tra realtà e vaghezza del sogno. Realtà e sogno, infatti, stanno alla base dell’inventio  poetica di entrambi gli autori,che descrivono una storia del tutto interiore, che si materializza nella rappresentazione naturalistica e che diventa mito dell’anima attraverso la memoria. Ed in ciò i due poeti sembrano aver interpretato l’assunto platonico, ma in chiave del tutto personale e con diversificazioni di connotazioni ideologico-stilistiche. Alla pioggia di fior della lirica petrarchesca fa riscontro ……dentro una nuvola di fior del verso dantesco………ma in seguito gli stilemi linguistici petrarcheschi decifrano situazioni più legate al reale fenomenico ed alla fisicità della donna. La pioggia  di fior   è rappresentata sull’amoroso grembo, così pure il ricordo delle trecce bionde,ch’oro forbito e perle……..ci riporta ad un forte senso della terrestrità.
 Come Dante anche Petrarca è alla ricerca dell’Amore, che rappresenta l’essenza stessa della vita. “Qui regna Amore” dice il poeta al v.52 della lirica e l’Amore sembra vivere alla maniera platonica nelle cose e colle cose. Per Dante,invece, l’amore è alla maniera aristotelica conoscenza “senza de li occhi aver più conoscenza,/ per occulta virtù che da lei si mosse”.
Anche  i colores verborum, che configurano Beatrice, sono diversi …………candido vel cinta ……….sotto verde manto……………..color di fiamma viva …..e sono tutti riconducibili all’universo poetico-idealogico del poeta.
Commentando questi versi Eugenio Chiarini in Lectura Scaligera -Le Monnier- 1967 arguisce acutamente a pp..114-115.
“Beatrice compare in una nuvola di fiori, bianco velata, in manto verde, con veste rosso d’un rosso fuoco, fiammeggiante come sole mattutino : fulgidi colori delle sue virtù,che riassumono in icastico accordo le tinte dominanti della processione augusta……………………… La gioia naturalistica e religiosa,degli occhi dinanzi al  prodigio verecondo del sole che nasce (Purgatorio XXX vv. 21-27- Io vidi già nel cominciar del giorno/ la parte oriental tutta rosata, e l’altro ciel di bel sereno adorno;/e la faccia del sol nascere ombrata,/sì che,per temperanza ai vapori,/ l’occhio la sostenea a lunga fiata;) dai vapori dell’alba,riemerge intatta nella memoria e si ricrea nella visione della sua donna che fu il primo sole………………………………….Una parusia dunque………che lo attira nel suo cerchio e lo emoziona dal profondo”.
NOTE
[1]  ibidem  in434 a Socrate che aveva affermato che le parole non potrebbero mai assimilarsi a nulla, se non esistessero quei certi elementi che formano le parole appunto capaci appunto d’esprimere una certa simiglianza. E simiglianza ciò di cui i nomi sono con  ciò di cui i noni sono imitazione, le lettere appunto.
[2] Il concetto di mimesi ricorda senz’altro il principio platonico, da cui però il filosofo si distaccherà in base anche alla sua diversa concezione filosofica.
[3] In  questo passo comincia a delinearsi il concetto di mimesi artistica, in modo diversificato da quello platonico, e si determinano i modi letterari, che oggi noi chiamiamo generi letterari e di cui il  filosofo predilige il poema epico ed il dramma. Inoltre si afferma che la poesia si origina da una naturale predisposizione dell’uomo
[4] Il filosofo anticipa alcune delle posizioni accreditate dagli studiosi coevi circa gli aspetti valoriali della fonologia linguistica e del livello sonoro- timbrico coessenziale  all’inventio poetica. 
[5] Aristotele, che aveva iniziato il suo discorso con un’intonazione platonica (la mimesi) ora se allontana per affermare,in coerenza con i suoi assunti filosofici, l’universalità dell’arte.

 

 Cap. II
Dallo strutturalismo alla filosofia del linguaggio
 
 Lo strutturalismo assume diversi significati nei vari momenti storici e nelle varie discipline.
E’ un metodo di studio che si può applicare anche alle scienze esatte.
 Ma, dovendo noi discutere sui modelli  di lettura e sull’analisi dei testi, ci limitiamo a trattare gli aspetti peculiari riferibili alla nostra sfera d’interesse.
Articolato si manifesta il discorso intorno ai metodi ed ai presupposti ideologici dello strutturalismo funzionali all’indagine del testo letterario.
Nel testo letterario, infatti, oltre alle componenti psicologiche e filosofiche vengono analizzati tutti i processi, attraverso i quali questo  si realizza e si presenta al lettore.
Lo strutturalismo, inoltre, propone diverse  strategie interpretative:
a) semiologica: si volge alla decodificazione del sema e di tutti gli elementi linguistici interlivellari costitutivi del testo e coessenziali alla “struttura” dello scritto letterario. I modi interpretativi spesso si raccordano a schemi matematici.
b) antropologica: si applica lo studio semiologico, ai fini di  individuare i fatti sociali intelligibili nell’ambito  storico-antropologico.
 In tal caso anche il linguaggio assume una forte valenza di “storicità” discorsiva e dialogica.
c) psicologica: nello studio letterario si pone particolare alla psicanalisi.
La struttura, in tal caso, è data “dagli effetti che la combinazione pura e semplice del significante denota nella realtà, dove essa si produce”. (J.Lacan-Ecrits-Paris-1966-pag.649).
d) filosofico: per quanto attiene alla speculazione filosofica, applicata allo strutturalismo, si distinguono tre momenti fondamentali nella storia del pensiero novecentesco:
1) il neokantismo, di cui uno dei maggiori esponenti è il Cassirer.
2) l’ideologia  marxista, promossa da Althusser e  riproposta, nei modi dello strutturalismo linguistico antropologico-socalie, da Levi-Strauss.
3) la filosofia probabilistica del ‘900: al bivio tra fenomenologia (Husserl)  ed  esistenzialismo (Heidegger).
Iniziamo a trattare della corrente del neokantismo ricordando l’opera di E.Cassirer.
Cassirer, pur attingendo alla Critica della Ragion pura di Kant, lamenta in questa l’assenza di un’analisi critica del linguaggio. ” Nella critica della ragion pura sembra del tutto trascurato il problema del linguaggio umano. Com’è possibile si chiede (Herder) una critica della ragione che non divenga anche una critica del linguaggio?”. (E. Cassirer- Lo strutturalismo nella linguistica moderna- trad.it. in “Nuova corrente”- Milano- pag.298).
Per Cassiser, invero, il fondamento comune, che riunisce tutte le forme della cultura dall’arte  alla religione, è l’espressione simbolica.
Il filosofo in “Filosofia delle forme simboliche” sostiene che, tutto quanto appartiene allo spirito,  si volge ad un’unica finalità: quella di trasformare il mondo passivo delle pure impressioni  nella pura espressione spirituale.
Cardine del suo sistema filosofico è il segno, non solo perché destinato alla comunicazione, ma anche perché realizza, formandolo e determinandolo, il mondo dell’espressione spirituale.
 Così argomenta il Cassirer in ” Filosofia delle forme simboliche” a pag.18.
” Il contenuto dello spirito si compie soltanto nelle sue manifestazioni; la forma ideale è riconosciuta soltanto attraverso il concetto del sensibile, dal quale essa si serve per la sua espressione”.
Questo principio viene ribadito nella medesima opera a pag.289-290, nella quale il filosofo dice che ” una teoria della conoscenza dovrebbe essere una sorta di pianta del nostro “globus intellectualis”, ma questa pianta è ancora in gran parte incompiuta……….. Nella moderna teoria della conoscenza la linguistica è del tutto trascurata…………..un libro sulla logica della linguistica manca ancora…..”.
Non c’è dubbio che Humdoldt (1768-1853), che è vissuto anteriormente e che è considerato il creatore della moderna scienza, abbia influito sul pensiero del Cassirer.
Analogie possiamo trovare tra i due autori, in particolare se ci ricordiamo gli ammaestramenti, che Humboldt  ci fornisce nei saggi letterari, ed in  ispecie nell’Arminio e Dorotea di Goethe (1798).
 In quest’opera il pensatore enuclea il suo pensiero ed approda alla concezione di un processo evolutivo della forma umana, nella quale riconosce la forza spirituale e dalla quale dipendono tutte le manifestazioni dell’uomo nel mondo, ivi compreso il linguaggio.
Il filosofo definisce grandi uomini quelli, nei quali si è affermato lo spirito dell’umanità, ed addita come  exempla Goethe ed il popolo dei Greci.
Connessa all’idea dell’umanità in Humboldt è il linguaggio, concepito come l’attività della forza dell’uomo (energheia).
Humboldt dice in ” Scritti e frammenti di estetica-VI, I a pag. 86 
” Poiché non vi è nessuna forza dell’anima che non sia attiva, non c’è nulla di così profondo e nascosto che non si trasformi e riconosca in esso” (con chiara allusione al linguaggio).
Opina, inoltre, che la diversità del linguaggio avviene a seconda della sua organizzazione e del suo modo di esplicarsi in tempi diversi da popolo a popolo.
Nel linguaggio, sempre secondo Humboldt, interagiscono fantasia e sentimento, che si diversificano nel tempo ed in seno ad uno specifico popolo, determinando diversità di caratteri individuali, che sono riflessi nella molteplicità dell’espressione linguistica.
Il linguaggio, inoltre, per H. è ” un organismo che vive nella totalità e nella connessione delle sue parti”.
Possiamo notare, da quanto abbiamo detto, come già in H. s’intravedono le linee direttrici di molta parte delle teorie linguistiche tuttora vigenti.
Dopo questo primo breve excursus sulle posizioni neokantiane,  riguardanti la  teoria del linguaggio, ci pare opportuno occuparci della corrente marxista, che nel ‘900 ha prodotto molte opere non solo sullo studio della linguistica, ma anche sulle strategie ermeneutiche, finalizzate a dare una differente visione globale della vita, e, dalle quali deriva conseguentemente una diversificata lettura del testo letterario. 
La scuola di pensiero marxista, invero, si contrappone a quella idealista, in quanto intende, seguendo i precetti di Marx, l’arte come “sovrastruttura”, legata alle forme giuridiche, politiche, religiose ed articolate in modo che determino lo sviluppo delle condizioni di “vita reale degli uomini reali”.
Secondo la prospettiva marxista si nega ogni forma di universalismo idealistico.
Vengono, altresì, condannate e respinte le teorie, che pretendono di attribuire alla letteratura carattere universale, in quanto  sono considerate prodotti della società borghese, classe politica dominante, che  elabora a suo consumo forme letterarie, atte a rinvigorire nell’animo dei lettori “una falsa coscienza”. (Adorno).
Si assiste ad una rivoluzione del pensiero, che si estende anche nel campo epistemologico.
Al riguardo il Marchesi puntualizza (A.Marchesi- Il testo letterario- -Avviamento allo studio della critica letteraria- S.E.I.- Torino pp.467-68:
” Il marxismo reagì, e reagisce ancora, esorcizzando lo spettro stutturalistico imputato di rappresentare l’ultima e più perfida reincarnazione ideologia del pensiero tecnocratico-borghese (con buona pace di quegli studiosi che vivono o lavorano in paesi ora ex-socialisti, o, addirittura si dichiarano marxisti).
Il paradigma  delle accuse è interessante
1) Lo strutturalismo è astorico  perché  si fonda su archetipi, modelli, schemi che permangono invariati nel dinamismo individualizzante dei processi sociali e culturali.
2) Lo strutturalismo non è dialettico perché antepone la sincronia alla diacronia, l’immutabile al variabile, l’astratto al concreto.
3) Lo strutturalismo è una specie di idealismo mistificante perché  gli oggetti (ad esempio le opere artistiche) non sono che degli epifonemi di modelli preesistenti.
Teorico del marxismo è Althusser, che, però, di Marx ci offre una lettura del tutto nuova e producente nell’ambito epistemologico.
Althusser, infatti, sostiene che Marx avrebbe ad un certo punto operato una vera  e propria rottura epistemologica con le sue argomentazioni transitando dall’ideologia alla scienza.
Marx, però, ritiene A., non avrebbe compiuto un semplice “rovesciamento” della dialettica, ma una sua radicale trasformazione.
E se per Hegel reale e razionale, essere e dovere essere coincidono, per Marx la totalità dell’Essere appare più articolata e complessa, se rapportata ad una forza dominante, che è l’economia.
Dal che si origina il binomio di struttura (nell’ambito politico, economico, sociale) e sovrastruttura, concernente il mondo dell’arte in genere.
Althusser intende superare quest’antitesi tra struttura e sovrastruttura e, preannunciando forme di pensiero, ancora oggi vive e fruibili nell’ambito ermeneutico, realizza il principio di una struttura globale, che, congiuntamente all’economia e alla politica, ingloba l’ideologia.
Così scrive in ” Per Marx (1965):
“Dal 1845 Marx rompe radicalmente ogni teoria che fonda la storia e la politica su un’essenza dell’uomo. Questa rottura unica comporta tre aspetti teorici indissociabili:
1) formazione di una teoria della storia e della politica fondata su concetti radicalmente nuovi, cioè su concetti quali la formazione sociale, forze produttive, rapporti di produzione, sovrastrutture, determinazione in ultima istanza di opera dell’economia.
2) critica radicale delle pretese tecniche di ogni umanesimo filosofico.
3) definizione dell’umanesimo come ideologia.
Questa rivoluzione teorica totale ha, però, il diritto di rifiutare i concetti in quanto li sostituisce con concetti nuovi…..Così come quando Marx nella teoria della storia, sostituisce la vecchia coppia individui-essenza umana con concetti nuovi (come forza di produzione, rapporti di produzione ) in realtà propone al tempo stesso una nuova concezione della “filosofia”. Egli sostituisce agli antichi postulati(empirismo, idealismo del soggetto, emprismo-idealismo dell’essenza) che sono alla base non soltanto dell’idealismo, ma anche del materialismo pre-marxista, un materialismo dialettico-storico della prassi; vale a dire una teoria dei diversi livelli specifici della pratica umana (pratica economica, pratica politica, pratica ideologica, pratica scientifica) nelle loro articolazioni proprie, fondate nell’articolarsi specifico dell’unità della società umana. Diciamo in due parole che al concetto “ideologico” ed “universale” della “pratica” feuberchiana Marx, sostituisce delle differenze specifiche, che permettono di situare ogni pratica particolare nelle differenze specifiche della struttura sociale”.
Abbiamo riportato questo testo di A. perché riteniamo che, proprio da questa lettura, possiamo comprendere la nuova interpretazione del marxismo. Althusser, infatti, si oppone  alla tradizione del marxismo imperante, rifiutando il principio di un’analisi esclusivamente empirica anche nell’esegesi del testo letterario, che, secondo l’autore deve tradurre in parole questa nuova concezione della vita e del mondo.
  Ne consegue che, pur basandosi con accurata forma di filologia di pensiero, alle congetture di Marx, A. sostituisce all’analisi empirica quella razionale includente anche l’ideologia.
 Il che ha senz’altro una valenza assai forte anche nell’approccio   ermeneutico ai testi letterari.
Donde nasce l’originalità tutta propria del suo pensiero, che esclude per sua stessa esplicita dichiarazione, ogni contatto con lo strutturalismo.
 In ” L.Althusser e E.Balibar- Leggere il capitale- trad. it.- Milano 1968” , a pag.68, l’autore dice: 
[“Nonostante  le preoccupazioni prese per distinguerci dalla “ideologia strutturalista”, nonostante il decisivo intervento di categorie esterne allo “strutturalismo”  la terminologia che abbiamo impiegato era da diversi punti di vista troppo vicina allo “strutturalismo” per non dar luogo ad equivoco. E’ accaduto che, escluse eccezioni, la nostra interpretazione di Marx è stata generalmente ascoltata e giudicata in omaggio alla moda attuale, come”strutturalista”. Pensiamo che la profonda tendenza dei nostri testi, non si riallacci, nonostante gli equivoci terminologici, all’ideologia “strutturalista”.]
Althusser intende rivendicare l’originalità del suo pensiero, che non si imparenta colla moda dello strutturalismo, ma che si basa su  teoresi e processi gnoseologici innovativi.
Parimenti Levi-Strauss, anche se è chiamato il padre dello strutturalismo, in un primo momento sembra vicino alle tesi di Althusser, soprattutto per quanto riguarda l’analisi di tipo razionale.
Nell’opera  “Tristi Tropici” (1955) Levi-Strauss rivela uno specifico interesse per l’antropologia. 
Contrapponendosi all’opera di Durkein e all’ipotesi, accreditata dagli etnologi del tempo, che affermavano che il totemismo fosse la chiave d’interpretazione dei raggruppamenti umani, sostiene la tesi del primato dell’intelletto sul sociale. Il che lo conduce a conclusioni tuttora accreditate dai teorici della filosofia e dell’ermeneutica letteraria. 
L’autore, inoltre, applica i modi del suo discernimento filosofico anche al problema del linguaggio, come possiamo desumere dal brano che si riproduce:
“Il principio fondamentale è che il concetto di struttura sociale non si riferisce alla realtà empirica (posizione vicina ad Althusser), ma ai modelli costruiti in base ad essa. Risulta quindi chiara la differenza tra due concetti tanto vicini da essere spesso confusi, quelli cioè di struttura sociale  e relazioni sociali.  Le relazioni sociali sono la materia prima per la costruzione dei modelli che rendono manifesta la struttura sociale.
Si tratta allora di sapere in che cosa consistano quei modelli che sono l’oggetto peculiare dell’analisi strutturale. Il problema non è etnologico, ma epistemologico”. ( Levi-Strauss- Antropologia culturale pp.311-313).
“Il problema non è etnologico, ma epistemologico” ; questa frase rappresenta il nucleo fondante del pensiero di Levi-Strauss, dal quale germinerà il principio, secondo il quale possiamo comprendere l’insieme delle regole di relazione e di combinazione, operate da un gruppo ed anche le possibili varianti trasformazioni o variabili sul piano antropologico e su quello della comunicazione linguistica.
 Ulteriori sviluppi del pensiero di Levi-Strauss ci pongono a riflettere sulle costanti strutturali dell’umanità  connotanti l’antropologia  come una scienza universale,  definita dall’autore “capace di cogliere ciò che sta alla base di tutte attività, ivi  inclusa la forma di linguaggio”.
Analizzando il pensiero di Leivi-Strauss, Ricoeur chiama il nostro “Kant dell’antropologia”, ma poi aggiunge “senza oggetto trascendentale”.
 E Ricoeur, a dimostrazione della sua tesi, chiarisce  che  Levi-Strauss  ha sostituito all’io penso di Kant un io inconscio, che sta alla base di tutti i processi gnoseologici e linguistico-comunicazionali.
Ci sembra alquanto  concludente questa posizione di Ricoeur, anche perché, con il ricorso all’io inconscio, ci permette di adire ad altre forme dello strutturalismo oscillante tra psicanalisi ed esistenzialismo. 
Ci riferiamo in particolare a Lacan e Foucault.
Alla base del pensiero di Lacan(1901-1981) vive l’esigenza di un ritorno a Freud.
  Lacan rivisita il pensiero di Freud e ne coglie la lezione, indagando nei meandri  dell’essente, “lo spirito autentico” dell’uomo contemporaneo  e la “complessità” del suo pensiero.
Fondamentale è in Lacan la teoria, espressa negli Scritti (1966), e, che viene individuata come interpretazione linguistica dell’ Es.
 Il punto di partenza del pensiero di Lacan è costituito dalla negazione del principio  della filosofia tradizionale, secondo la quale la centralità dell’uomo risiede nella coscienza o nel cogito.
 Lacan, a questa concezione ne oppone un’altra, che contempla due momenti dell’Essere che interagiscono: L’Inconscio e l’Altro.
L’Altro, nell’accezione di Lacan, è costituito dal linguaggio.
 All’interno del pensiero di Lacan si collocano alcune delle tesi più significative presenti nell’odierna lezione tradita dallo strutturalismo.
 Una teoria molto seguita di Lacan, in particolare negli anni sessanta, è quella dello Spaltung (ossia della divisione tra psichismo ed inconscio e dell’esistenzialità dell’uomo in bilico tra desiderio e mancanza).
Ma per meglio comprendere Lacan ci affidiamo alle sue parole:
“I contenuti dell’inconscio nella loro deludente ambiguità non offrono nessuna realtà più consistente, nel soggetto che l’immediato……….Si tratta qui di quell’Essere che appare solo per il lampo di un istante, nel vuoto del verbo essere, e ho detto che pone la sua questione per il soggetto. Che vuol dire?…………………Ciò che pensa così al mio posto è un altro io?………..
La sua presenza non può essere compresa che a un grado, secondo dell’alterità, che già lo situa in posizione di mediazione in rapporto al mio sdoppiamento da me stesso come da un simile.
Se ho già detto che l’inconscio è il discorso dell’altro con l’A maiuscola, è per indicare l’aldilà in cui il riconoscimento del desiderio si lega al desiderio di riconoscimento.
In altri termini questo altro è l’ Altro che è invocato e persino nella mia menzogna come garante della verità in cui sussiste.
Nel che si osserva che è con l’apparizione del linguaggio che emerge la dimensione della verità”. ( Lacan- Scritti, pp.511 sgg.).
La lettura di questo brano ci fa comprendere come in questo scritto siano presenti componenti della cultura e dell’estetica letteraria rinvenibili nel testo poetico e/o narrativo del ‘900.
 Si profila, inoltre, il connubio tra il linguaggio e l’existere dell’uomo di tipo heideggeriano
Ne è exemplum l’opera di Foucault, che indaga col suo pensiero su strutture, che operino nella temporalità della storia.
L’attenzione di Foucault è volta all’epistemologia, come possiamo osservare dalla lettura della sua opera “Le parole e le cose- Un’archeologia delle scienze umane” (1966), nella quale si propone di illustrare gli  epistemi, che hanno influenzato la storia europea dal ‘500 sino ai nostri giorni.
 Tre sono gli epistemi indicati da Foucault e si riferiscono
 a) all’età rinascimentale
 b)a quella classica (che secondo F. va da Cartesio alla fine del sec. XVIII)
 c) a quella moderna.
L’interesse di F. si svolge particolarmente all’età moderna, nella quale, secondo il filosofo, c’è l’avvento della “nascita” dell’uomo. 
Questa definizione deve essere intesa nell’ottica epistemologica e, riferibile al fatto che in precedenza non esisteva la figura moderna dell’uomo, concepito come oggetto-soggetto di scienza.
 Ma da questo presupposto si origina il paradosso.
 Nel momento stesso in cui l’uomo nasce muore.
 Nell’età contemporanea, infatti, l’essere umano diventa oggetto di scienza autentica di tipo strutturalistico  e quindi cessa di essere soggetto.
 In tal senso Foucault intende criticare quelle, che chiama contro-scienze (psicanalisi, etnologia, linguistica). 
Appare evidente a questo punto il distacco dal pensiero di Lacan.
 Dal psicologismo di Lacan ora F. sposta la sua attenzione verso l’esistenzialismo. 
Ma qual è per Foucault l’emblema che rivela questo existere dell’uomo contemporaneo?
 Lo studioso lo individua nel linguaggio. In “Le parole e le cose”, a pag.413, ci dice :
“Il problema non è dunque l’uomo che potrebbe essere cancellato come sull’orlo del mare un volto di sabbia, ma piuttosto l’esigenza di ritrovare quell’unità del linguaggio e quindi della rappresentazione dell’Essere, che l’uomo stesso frantumerà”.
Troviamo in questo brano molti punti di contatto con l’opera di Blanchot.
Non c’è dubbio che nell’opera di F. confluiscono molte suggestioni, anche della poesia ed in particolare di quella simbolistica,  correlate ai presupposti della filosofia probabilistica del ‘900.
 In proposito è  illuminante l’affermazione di Foucault: “chi parla non è l’individuo, ma la parola stessa”.
Ad esemplificazione delle nostre enunciazioni riportiamo un brano tratto ancora  da “Le parole e le cose”- pp.407-409
“L’ analisi linguistica  è più una percezione che una spiegazione; è in altre parole costitutiva del suo stesso soggetto. Inoltre, ecco che attraverso quest’emergere della struttura ( in quanto rapporto invariante in un insieme di elementi) il rapporto tra scienze umane e matematica  viene di nuovo a schiudersi secondo una dimensione interamente nuova………………………….
L’importanza della linguistica e della sua applicazione alla coscienza dell’uomo fa riapparire, nella sua insistenza enigmatica, il problema dell’essere nel linguaggio, il quale è legato, come abbiamo visto, al problema della cultura……..Attraverso un cammino assai lungo e imprevisto, siamo ricondotti nel posto indicato da Nietszche e da Mallarmè, allorché il primo aveva chiesto: “Chi parla?” e l’altro aveva veduto scintillare la risposta nella Parola stessa”…….
Le posizioni di Lacan e Foucault influenzano in uno primo momento le tesi di Deridda ,(n. nel 1930) che opera, però, uno stacco ancora più radicale dallo strutturalismo.
D. polemizza anzi con Foucault, a proposito delle griglie, che ritiene fuorvianti e banalizzanti l’autenticità del discorso dell’Essere e reputa l’opera di Foucault come quella di Lacan, fondata su una ricerca viziata, costretta a fallire.
Primum movens del progetto filosofico di Deridda è l’idea di una “decostruzione” della metafisica della “presenza”,  propria della tradizione filosofica occidentale.
Sulle orme del pensiero heideggeriano, e, contrapponendosi alla metafisica europea ed allo strutturalismo, che hanno dato l’avvio al logocentrismo e fonocentrismo, D. sostiene che l’Essere è differenza e che, come tale, non è “presentificabile” nel linguaggio.
Dell’ essere, inteso come una sorta di Assenza, secondo il pensatore, non si può dare attraverso la parole delle rappresentazioni, ma tracce.
Alla voce “presenza” Deridda sostituisce la scrittura (assenza).
 In tal modo sostituisce alla metafisica  logocentrica e fonocentrica tradizionale  una nuova e post-metafisica della scienza (la grammatologia).
Leggiamo di Deridda un brano tratto da “La scrittura e la differenza (1967) pp.20 sgg.
“La cosa grave che questo metodo,”ultra-strutturalista”, per certi lati sembra contraddire l’intenzione più preziosa e originale dello strutturalismo. Quest’ultimo nei campi della biologia e della linguistica, in cui si era dapprima manifestato, tende soprattutto a preservare la coerenza e la complessità di ogni singola totalità al suo livello. Essere strutturalista significava anzitutto applicarsi all’organizzazione del senso, all’autonomia e all’equilibrio proprio,  alla costituzione realizzata di ogni momento, di ogni forma; significa rifiutarsi di trasferire al rango di accidente aberrante tutto ciò che un tipo ideale non permette di comprendere…………..Lo strutturalismo vive nella e della differenza tra il suo voto e il suo fatto. Si tratti di biologia, di linguistica o di letteratura, come è possibile percepire una totalità organizzata senza percepire una totalità organizzata senza prendere l’avvio dalla  sua fine, dal suo fine? almeno, nella presunzione di esso? E se il senso non è il senso che in una totalità, come potrebbe sgorgare se la totalità non fosse animata dall’anticipazione di una fine, da un’intenzionalità che peraltro non è necessariamente e prima di tutto quello di una coscienza? Se ci sono strutture, esse sono possibili solo a partire da questa struttura fondamentale  per mezzo della quale la totalità si apre e si riversa per prendere senso nell’anticipazione di un telos che dobbiamo qui intendere nella sua forma indeterminata………..Allora si deve riconoscere che [……..] ciò che all’interno minaccia la luce è anche ciò che minaccia metafisicamente ogni strutturalismo : nascondere il senso nell’atto stesso in cui lo si scopre. Comprendere la struttura di un divenire, la forma di una forza, è perdere il senso, mentre lo si conquista […….] Il senso del senso è apollineo per tutto quello che in esso si manifesta.”
Il nostro discorso adesso ci avvicina ai testi della letteratura, che hanno in comune con gli autori, di cui abbiamo parlato, modi ideativi poietici nelle loro composizioni in poesia e/o in prosa. Abbiamo innanzi ricordato che Deridda intende sostituire alla voce “presenza” la scrittura “assenza”.
E’ da rilevare che questo concetto, già molto prima di Deridda si configurava nella mente di Italo Svevo, che nella pagina iniziale della Confessione di un vegliardo, che reca la data del 4 aprile 1928 parla della “letteraturizzazione della vita”.
Riportiamo il testo:
“Con questa data comincia per me un’era novella. Di questi giorni scopersi nella mia vita qualcosa d’importante, anzi la sola cosa importante che mi sia avvenuta:la descrizione da me fatta di una parte. Certe descrizioni accatastate,  messe da parte per un medico che le prescrisse. La leggo e la rileggo e m’è facile di completarla di mettere tutte le cose al posto dove appartenevano e che la mia imperizia non seppe trovare. Com’è viva quella vita e come è definitivamente morta la parte che raccontai. Vado a cercarla talvolta con ansia sentendomi monco, ma non si ritrova. E so anche quella parte che raccontai non ne è la più importante. Si fece la più importante perché la fissai. E ora che cosa sono io? non colui che visse, ma colui che descrissi. Oh! l’unica parte importante è il raccoglimento. Quando tutti comprendono con la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata.  Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere e a studiare quello che l’altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera. E se una parte dell’umanità si  ribellerà e rifiuterà di leggere le elucubrazioni dell’altra, tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso. E la propria vita risulterà più chiara o più oscura, ma si ripeterà, si correggerà, si cristallizzerà. Almeno non resterà qual è priva di rilievo, sepolta non appena nata, con quei giorni che vanno via e s’accumulano uno uguale all’altro di fronte agli anni, i decenni, la vita tanto vuota, capace solo di figurare quale un numero di tabella statistica del movimento demografico. Io voglio scrivere ancora.”
Leggendo questo brano abbiamo ragione di ritenere che “in nuce” sono presenti molti degli atteggiamenti spirituali e culturali imperanti nella cultura coeva. Chi dice di essere lo scrittore? “Non colui che visse, ma colui che descrissi”. 
Ma come deve avvenire questa trasposizione di tutta quanta la vita nella scrittura? 
Ce lo dice lo stesso Svevo “nel raccoglimento” “L’unica parte importante della vita è il raccoglimento”
Questo modo di intendere la vita e la scrittura realizza l’inscindibile binomio letteratura-vita, che sta alla base di tutta quanta la cultura contemporanea.
Il raccoglimento, poi, di cui parla Svevo indica quel ripiegamento dello spirito in se stesso nell’atto di interpunzione tra l’io ed il mondo (epochè dirà Husserl), da cui si origina il nostro modo di intendere l’universo e di comunicare con noi stessi e col prossimo.
E’ affidato proprio alla letteratura questo compito, che si identifica con la ragione stessa della vita e che rappresenta l’unica possibilità di salvezza e di riscatto all’ existentia dell’uomo contemporaneo lacerato da dubbi ed incertezze.
“La vita sarà letturatizzata”.
Secondo Svevo è soltanto la letteratura ed in particolare la scrittura (anticipazione di Deridda?) che renderà viva la vita, mentre “il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera”
La letteratura, la scrittura si presentano al nostro autore, ed in ciò, anticipando le istanze della poetica del secondo novecento, come “varco” e si identificano colla sua stessa esistenzialità.
Così si conclude la lettera “Io voglio scrivere ancora”.
E’ un atto di fede nei confronti della letteratura ovvero la profonda convinzione che lo scrivere darà un senso al non senso della vita?
Oppure Svevo ci anticipa la volontà di sfidare il labirinto, come ci propone I.Calvino nel brano, che appresso si riproduce?
“Questa letteratura del labirinto gnoseologioco-culturale ……ha in sé una doppia possibilità. Da una parte c’è l’attitudine oggi necessaria per affrontare la complessità del reale, rifiutandosi alle visioni semplicistiche che non fanno che confermare le nostre abitudini di rappresentazione del mondo; quello che è oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. D’altra parte c’è il fascino del labirinto in quanto tale, da perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo. Nello sceverare l’uno e l’altro i due atteggiamenti vogliono porre la nostra attenzione critica, pur tenendo presente che non si possono sempre distinguere con un taglio netto (nella spinta a cercare la via d’uscita c’è sempre anche una parte d’amore per i labirinti in sé; e dal gioco di perdersi nei labirinti fa parte anche un certo accanimento a trovare la via d’uscita).
Resta fuori chi crede di poter vincere i labirinti sfuggendo alle loro difficoltà; ed è dunque una richiesta poco pertinente quella che si fa alla letteratura, di fornire essa stessa la chiave per uscirne. Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. E’ la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto”
Lo scritto di Calvino risale all’anno 1962 e viene pubblicato nella rivista “Menabò″diretta da lui medesimo con Elio Vittorini.
Calvino, in polemica con la letteratura di avanguardia, che considera “letteratura del coacervo biologico-esistenziale”, si propone di trovare una via d’uscita, anche se via d’uscita”sarà il passaggio da un labirinto all’altro”. 
E se Svevo indicava una soluzione nella “letturarizzazione della vita”, assai più articolato ci sembra il  discorso di Calvino, conscio del cammino impervio che l’uomo, ed il letterato in particolare, deve compiere per non soccombere alla “resa del labirinto”.
La ” non resa al labirinto” di Calvino, in effetti, a nostro parere compendia gli aspetti nodali delle teorie esposte infra al presente lavoro dagli autori più rappresentativi delle moderne teorie letterarie.
Nell’atteggiamento di Calvino ci appaiono anche ravvisabili i nuclei lirico-ideativi di tanta poesia del ‘900: da Ungaretti che definisce la poesia ” è il mondo, l’umanità/ la propria vita/ fioriti dalla parola/ la limpida meraviglia / di un delirante fermento/………(Commiato  Locvizza 2 ottobre 1916) ovvero la parola: Parola tremante/ nella notte/ Foglia appena nata/ Nell’aria spasimante/ involontaria rivolta/ dell’uomo presente alla sua/ fragilità.. .(Fratelli- Mariano 15 luglio 1916) a Quasimodo che evoca il suo Orfeo,che ” brulica d’insetti,è bucato dai pidocchi”, ma che con il suo urlo vince il mondo facendo rivivere Euridice, figura stessa dell’amore, che si fa poesia.
 E non possiamo certo dimenticarci di Montale e del suo messaggio, 
espresso nella lirica “Gallo cedrone”, in cui si stigmatizza il travaglio lacerante del poeta, da cui però si apre uno spiraglio:
 
Sento nel petto la tua piaga, sotto
un grumo d’ala; il mio pesante volo
tenta un muro e di noi solo rimane
qualche piuma sull’ ilice brinata.
Ma alla conclusione della lirica M. dice:
……………Ora la gemma
delle piante perenni, come il bruco,
luccica nel buio……..
Anche, quando affronta il problema del linguaggio, Montale sembra addentrarsi nella tortuosità del suo esistenziale labirinto, nel  quale non può che incepiscare  ricercando sempre, però, con la veridicità della parola l’autenticità dell’ Essere.
Incespicare, incepparsi                        
è necessario 
per destare la lingua
dal suo torpore.
Il dictamen della lirica montaliana appena citata ci spinge ad approfondire il problema della filosofia del linguaggio, che interessa in massima parte il panorama culturale-filosofico coevo.
Nel ‘900, infatti, emergendo la riflessione sulle scienze umane, si accentua la riflessione sul linguaggio.
La linguistica e la semiotica hanno dominato il campo d’indagine nel primo novecento sino agli anni’60, ma in un secondo momento  lo strutturalismo entra in crisi e si percorrono nuove strade nei processi gnoseologici del mondo, del suo manifestarsi attraverso il linguaggio e la scrittura.
Il rapporto tra linguaggio ed Essere, Essere e conoscenza diventa sempre più dialettico ed influenza le correnti estetiche.
Il linguaggio, inteso come raffigurazione del mondo,è presente nell’opera di Wittegestein. 
Sono, infatti, sue le osservazioni :” La  totalità dei pensieri è una raffigurazione del mondo………………..Il  Pensiero è la proposizione significativa del mondo”.
Possiamo considerare la teoria esposta da W. alla maniera  di Aristotele, apofantica e cioè rivelatrice di ciò che è.
Ma subito ci accorgiamo della diversità di pensiero che intercorre tra i due autori.
Nella concezione aristotelica il mondo è determinato dalla necessità (da ciò che è non può essere diversamente), mentre in W. dalla causalità.
Ne consegue che di volta in volta il linguaggio assume diversi significati, riferibili ai diversi modi di porsi dell’uomo nell’esistente.
Si origina, pertanto, la teoria dei giochi linguistici, secondo la quale W., concependo il linguaggio come una forma di vita, ne analizza le mutazioni con la nascita continua di alcuni vocaboli e con il disuso di altri.
W.,avvicindosi anche alle teorie estetiche contemporanee, ci dice che il linguaggio, connesso ai fatti, non può esprimere l’ente del mondo, ma che il suo modo di manifestarsi è quello di correlarsi ai fatti.
Anche per quanto concerne l’inesprimibile, ed in questo si avvicina a Blanchot, W. si rapporta al silenzio, che può assurgere ad un carattere  mistico.
Leggiamo in Tractatus logico-philosophicus ( pubblicato in Annalen der Naturphilosophie- Vienna 1921)
I  limiti del linguaggio significano i limiti del mondo.
Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è.
Di una risposta che non si può formulare, non può formularsi neppure la domanda.
L’enigma non v’è.
Se una domanda può porsi, può avere risposta.
Noi sentiamo che anche una volta tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta.
V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico.
Rilevante è anche la posizione di Husserl sul piano gnoseologico del ‘900 e la sua lezione nell’ambito dell’estetica e della comunicazione letteraria.
Con Husserl, invero, assistiamo ad un profondo mutamento delle posizioni filosofiche precedenti.
Per il filosofo, infatti, si nega la concezione di un riconoscimento della realtà, implicita in ogni atteggiamento naturale o rapportata ad interessi.
 Il phainomai  della realtà è proprio quale appare all’uomo e alla sua coscienza.
 Il mutarsi di quest’atteggiamento si chiama epochè.
Il termine era già in uso nella filosofia greca con il significato di “sospensione” e serviva a connotare lo scetticismo radicale circa la possibilità di formulare giudizi.
Nei termini proposti da H. indica il mettere “tra parentesi” ed in ciò vuole mostrare la sua opposizione agli aspetti ontici della filosofia preesistente, che affermava l’esistenza di realtà esterna al di fuori della coscienza.
Dice Husserl : “Il mondo percepito in questa vita è in un certo senso sempre presente a me; è percepito come prima, col contenuto che in ogni caso gli è proprio. Continua ad apparirmi come mi appariva, ma nell’atteggiamento che mi è proprio come filosofo, non compio più l’atto dell’affermazione esistenziale dell’esperienza naturale, ma ammetto più questa affermazione come valida, sebbene sia presente ed anzi sia colta dallo sguardo dell’attenzione. E lo stesso avviene di tutte le altre conoscenze che appartengono al flusso della coscienza…….Tutto perde la sua validità, è presente come fenomeno”.
Ma questa sospensione dal mondo naturale, come osserva E. Garin in -Manuale di Storia della filosofia -Sansoni-1958 a pag. 58 “non significa altro che l’affermazione di una radicale insufficienza di essa e quindi l’esigenza di una giustificazione. Oltre alla logica pura H. si avvia verso la metafisica”. 
L’atto  di riferimento del dato conoscibile viene denominato da H. noesi, mentre il termine ideale noema.
Nell’ambito di quest’atteggiamento speculativo-intuitivo c’è la possibilità di intendere la metafisica.
L’intendere per H. è concepito come esigenza, maturata nella coscienza dell’uomo, di rivolgersi ad un’essenza universale. (eidos) 
H. così porta a compimento il metodo dell’intuizione eidetica. 
Ed è appunto attraverso questo metodo  che cerca di costruire il fondamento delle scienze apriori di essenze o di  forme pure, che costituiscono la molteplicità delle manifestazioni della nostra vita. 
Con quest’evoluzione di pensiero, oltre ad altre forme  istituzionali, il pensatore tenta di dare vita anche ad una grammatica pura e quindi ad una nuova forma di linguaggio, riferibili alla sua dottrina.
L’insegnamento di H. è quanto mai producente nell’ambito della Letteratura. 
Basti pensare all’influsso che H. esercitò nell’opera di Pirandello.
Le argomentazioni suesposte ci convincono sempre maggiormente del legame inscindibile che nell’era contemporanea esiste tra filosofia, letteratura, estetica, linguaggio e filosofia del linguaggio.
A questo punto ci sembra doveroso ricordare l’incidenza che ha avuto Heidegger tutte quante le forme del pensiero e dell’arte del ‘900.
Anche in Heidegger come in Husserl si delinea la formalizzazione del pensiero di “un’analitica dell’esistenza”.
Per maggiore chiarezza ci pare opportuno presentare i dettami della filosofia dell’autore attraverso le sue parole.
Il filosofo, che considera l’uomo non come rilevatore dell”Essere, ma pastore dell’Essere cosi esprime in ( M. Heidegger- La dottrina  di Platone sulla verità- Torino- trad. it. di A. Bixio e Vattimo- Torino 1975 a pag.93):
Piuttosto l’uomo è gettato nello stesso Essere nella verità dell’Essere che in tal modo ex-sistendo custodisca la verità dell’Essere perché nella luce dell’Essere appaia come quello essente che è. Se e come esso appare, se come dio e gli dei e la storia entrano nell’apertura dell’Essere, vengono e si ritraggono, tutto ciò non è l’uomo a deciderlo. L’avvento dell’Essente ripara nel destino dell’Essere.  All’uomo resta,  però, il problema di trovare essenza in conformità di destino che egli ha da custodire come esistente la verità dell’Essere.  L’uomo è il pastore dell’Essere.
Ma se l’uomo è il pastore dell’Essere, allora, quale forma assumerà il linguaggio?
Così argomenta Heidegger: 
L’ essere dunque , come che cos’è l’essere. esso è esso stesso…….L’Essere è ogni oltre essente ed è tuttavia all’uomo più vicino di ogni essente , sia questa una roccia , un animale, un’ opera d’arte, una macchina, un angelo o Dio. L’essere è ciò che ci è più vicino………………………………………………
Ma come si rapporta l’essere all’esistenza (se pure la domanda può essere posta in questi termini)? L’Essere, esso stesso è questo rapportarsi, in quanto esso tiene stretta a sé l’ex-sistenza nella sua essenza esistenziale, cioè statica e la raccoglie in sé come alla dimora della verità dell’essere in mezzo all’essente. Ma, poiché, l’uomo ex-sistendo viene a stabilirsi in questo rapporto, in cui l’Essere destina se stesso; mentre egli sostiene l’essere estaticamente, ossia lo prende nella sua cura, egli ignora soprattutto ciò che gli è più vicino e si attiene a quel che è di là da esso. Egli crede addirittura che quello sia il più vicino. Invece più vicino di ciò che ch’è più vicino, per il comune modo di pensare, e più lontano di quel che è più lontano, è la vicinanza stessa, ossia la verità dell’essere.
Questa vicinanza si realizza essenzialmente come lo stesso linguaggio. Il linguaggio non è semplicemente quel linguaggio che noi, nel caso migliore ci rappresentiamo come l’unità di formazione si suoni ( o della parola scritta) melodia e ritmo, e significazione. Noi pensiamo quella formazione del suono  e la sua immagine scritta come il corpo della parola, la melodia e il ritmo come la sua anima, e il corrispondente significato come lo spirito del linguaggio. pensiamo, così, il linguaggio abitualmente in corrispondenza all’essenza dell’uomo, in quanto viene rappresentato come animal rationale, ossia come l’unità di corpo-anima-spirito. Ma come nell’humanitas dell’ homo animalis resta occultata l’ex-sistenza e con questa il rapporto della verità dell’essere all’uomo, così l’interpretazione metafisica del linguaggio nasconde l’essenza storica del suo essere, per la quale il linguaggio è la casa dell’Essere, fatta dall’Essere e di esso compenetrata. Onde la sua essenza deve essere pensata in corrispondenza all’Essere, ossia come questa corrispondenza stessa, cioè come la dimora dell’essenza umana.  
( Da Heidegger- Che cos’è la metafisica? -a cura di A. Carlini- Firenze- La Nuova Italia 1979 pp. 103-106)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La figura di Ulisse ieri ed oggi

 

1 Giudizio di Cicerone su Ulisse

2 Catullo  Carme CI

3. U.Foscolo Dai “Sonetti” A Zacinto

4.  G. Pascoli ” L’ultimo viaggio”

5 . Il ricordo dell’Ulisse dantesco in Primo Levi

Cicerone De Officiis
Libro III cap.XXVI
 
XXVI.         Utile videbatur Ulixi, ut quidem poetae tragici  prodiderunt (nam, apud Homerum, optumum auctorem, talis de Ulixe nulla suspicio est), sed insimulant eum tragoediae simulatione insaniae militiam subterfugere voluisse. Non honestum consilium, at utile, ut aliquis fortasse dixerit, regnare et Ithacae vivere otiose cum parentibus, cum uxore, cum filio. Ullum tu decus in cotidianis laboribus et periculis cum hac tranquillitate conferendum putas ?   Ego vero istam contemnendam et abiciendam, quoniam, quae honesta non sit, ne utilem quidem esse arbitror. Quid enim auditurum putas fuisse Ulixem,si in illa simulatione perseveravisset? Qi  cum magimas res gesserit in bello, tamen haec audiat ab Aiace:
Cuius ípse princeps iúris iurandí fuit,
Quod ómnes scitis, sólus neglexit fidem;
Furere àdsimulare, né coiret, ínstitit.
 Quodní Palamedi perspicax prudéntia
Istíus percepset màlitiosam audàciam,
 Fidé sacratae iús perpetuo fàlleret.
 
Il1i vero non modo cum hostibus, verum etiam cum fluctibus, id quod fecit, dimicare melius fuit quam deserere consentientem Graeciam ad bellum barbaris inferendum.
Sed omittamus et fabulas et externa; ad rem factam nostramque veniamus.M. Atilius Regulus cum consul iterum in Africa ex insidiis captus esset, duce Xanthippo Lacedaemonio, imperatore autem patre Hannibalis Hamilcare, iuratus missus est ad senatum, ut, nisi redditi essent Poenis captivi nobiles quidam, rediret ipse Carthaginem.
 Is cum Romam venisset, utilitatis speciem videbat, sed eam, ut res declarat, falsam iudicavit; quae erat talis: manere in patria, esse domui suae cum uxore, cum liberis, quam calamitatem accepisset et in bello,communem fortunae bellicae iudicantem, tenere dignitatis gradum. Quis haec negat esse utilia ?, quem censes ? Magnitudo animi et forttitudo negat  

   Catullo – Carmina -CI

   Multas per gentes et multa per aequora vectu

Advenio has miseras,frater, ad inferias

  Ut  te postremo donarem munere mortis

 Et mutam nequiquam alloquerer cinerem,
                                  

Quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum,
                                    

Heu miser indigne frater adempte mihi!
                                  

   Nunc tamen in terra haec, prisco quae more parentum
   

  Tradita sunt tristi munere ad inferias
                                    

  Accipe fraterno multum manantia fletu,
                                   

    Atque in perpetuum, frater, ave atque vale.

U. Foscolo ” A  Zacinto” 

A ZACINTO
Nè mai più toccherò le sacre sponde
Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
 Zacinto mia, che te specchi nell’ onde
Del greco mar , da cui Vergine nacque
 
Venere, e fea quell’ isole feconde
 Col suo primo sorriso, onde non tacque
Le tue limpide nubi e le tue fronde
 L’ inclito verso di colui  che 1′ acque
Cantò fatali, ed il diverso esiglio,
Per cui bello di fama e di sventura,
Baciò la sua petrosa Itaca Ulísse.
 
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
O materna mia terra: a noi prescrisse
Il  fato illacrimata sepoltura.
[1803].

G. Pascoli ” L’ultimo viaggio “

Giovanni Pascoli
L’ultimo viaggio
 
Le Sirene
 
Indi più lungi navigò, più triste.
E stando a poppa il vecchio Eroe guardava
verso la terra de’ Ciclopi,
e vide dal cocuzzolo selvaggio
  del monte, che in disparte era degli altri,  5
levarsi su nel roseo  cielo un fumo,
tenue, leggiero, quale esce su l’alba
del fuoco che al pastor arse la notte.
Ma i remiganti curvi sopra i remi
vedean sì, nel violaceo mare                    10
lunghe tremare l’ombre dei Ciclopi
fermi sui lidi come ispidi monti.
E il cuore intanto di Odisseo vegliardo
squittiva dentro, come cane in sogno.
-Il mio sogno non era altro che sogno ;      15
e vento e fumo. Ma sol buono è il vero.-
e gli sovvenne delle due Sirene.
C’era un prato di fiori in mezzo al mare.
Nella gran calma le ascoltò cantare:
-Ferma la nave! Odi le Sirene.                    20
ch’hanno la voce come è dolce il miele;
 ché  niuno passa su la nave nera
che non si fermi ad ascoltarci appena,
e non ci ascolta, che non goda al canto,
né se ne va senza saper più tanto:                25
che noi sappiamo tutto quanto avviene
sopra la terra dove è tanta gente!-
Già sovveniva, e ripensò che Circe
gli invidiasse ciò che solo è bello:
saper le cose. E ciò dovea la Maga                30
dalle molt’erbe, in mezzo alle sue belve.
Ma l’uomo eretto, ch’ ha il pensier dal cielo,
dovea fermarsi udire, anche se l’ossa
avean pi da biancheggiar nel prato,
e raggrinzarsi intorno lor la pelle.                    35
Passar ei non dovea oltre, se anco
gli si vietava riveder la moglie
e il caro figlio e la sua patria terra.
E ai vecchi curvi il vecchio Eroe parlò:
“Uomini, andiamo a ciò che solo è bene:           40
a udire il canto delle due Sirene.
Io voglio udirlo, eretto su la nave,
né già legato con le funi ignave:
libero! alzando su la ciurma anela
la testa bianca come bianca vela;                       45
e tutto quanto nella terra avviene
saper dal labbro delle due Sirene”.
Disse, e ne punse ai remiganti il cuore,
che seduti coi remi battean l’acqua.
saper volendo ciò che avviene in terra:                 50
se avea fruttato la sassosa vigna,
se la vacca avea fatto, se il vicino
avea d’orzo più raccolto o meno,
che facea la fida moglie allora,
 se andava al fonte, se filava in casa.
 
 
Il vero
Ed il prato fiorito era nel mare,
nel mare liscio come un cielo; e il canto
 non risuonava delle due Sirene;
ancora perché il prato era lontano.
E il vecchio eroe sentì che una sommessa                       5
forza, corrente sotto il mare calmo.
spingea la nave verso le Sirene;
e disse agli altri di innalzare i remi:
 “La nave corre da sè, compagni!
Non turbi il rombo del remeggio i canti
delle Sirene. Ormai le udremo. Il canto
placidi udite, il braccio su lo scalmo”.
e disse agli altri di innalzare i remi:
“la nave orsù corre da sé,compagni!
Non turbi il rombo del remeggio i canti                              10
delle Sirene. Ormai le udremo. Il canto
placidi udite,il braccio su lo scalmo”.
E la corrente tacita e soave 
più sempre avanti sospingea la nave.
E il divino Odisseo vide alla punta                                      15
dell’isola fiorita le Sirene,
stese tra i fiori con il capo eretto
su gli oziosi cubiti, guardando
il mare calmo avanti a sé, guardando 
il roseo sole che sorgea di contro;                                      20
guardando immote; e la lor ombra lunga
dietro rigava l’isola dei fiori.
“Dormite? L’alba già passò. Già gli occhi
vi cerca il sole tra le ciglia molli.
Sirene, io sono ancora quel mortale                                    25 
che v’ascoltò, ma ma non poté sostare”.
E la corrente tacita e soave 
più sempre vanti spinge la nave.
E quel vecchio vide che le sue Sirene,
le ciglia alzate su le due pupille,                                           30
avanti a sé miravano, nel sole 
fisse, od io in lui, nella sua nave nera.
E su la calma immobile del mare,
alta e sicura egli alzò la voce.
 “Son io, son io, che torno per sapere!                                 35
Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel mondo
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?”.
E la corrente tacita  e soave
più sempre avanti sospingea la nave                                      40.
E il vecchio vide un grande mucchio d’ossa
d’uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente stese
sul lido, simili a due scogli.
 “Vedo. Sia pure.Questo duro ossame                                  45
cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch’io muoia. a ciò ch’io sia vissuto!”
E la corrente rapida e soave 
più sempre avanti sospinge la nave                                        50.
E s’ergean su la nave alte le fronti,
con gli occhi fisse delle due Sirene.
“Solo mi resta un attimo.Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io! chi ero!”
E tra i due scogli si spezzò la nave                                          55
 
(Da  Poesie  Mondadori  Milano 1978)

Il ricordo dell”ulisse dantesco in Primo Levi

Primo Levi
 
Se questo è un uomo
 
Il ricordo del canto di Ulisse in Primo Levi
 
Mentre l’autore con altri detenuti sta pulendo l’interno di  una cisterna. si affaccia Jean,studente anziano, il “Pikolo” della squadra,cioè colui che avendo una serie di incombenze, gode di qualche privelegio: Jean è  benvoluto perchè mantiene rapporti umani con i compagni, aiutandoli in tutti i modi.
 
Appeso alla scala con una mano oscillante mi indico:
Ajourd’hui c’est Primo qui viendra avec moi cercher la soupe.
Fino al giorno prima era stato Stern, il transilvano strasbico; ora questi era caduto in disgrazia per non so che storia di scope rubate in magazzino e Pikolo era riuscito ad appoggiare la mia candidatura come aiuto nell'”Essenholen, nella corvée quotidiana del rancio.
Si arrampicò fuori, ed io lo seguii, sbattendo le ciglia nello splendore del giorno. Faceva tiepido fuori, il sole sollevava dalla terra grassa un leggero odore di vernice e di catrame che mi ricordava una qualche spiaggia estiva della mia infanzia. Pikolo mi diede una delle due stanghe e ci incamminammo sotto un chiaro cielo di giugno.
Cominciavo a ringraziarlo, ma mi interruppe, non occorreva: Si vedevano i Carpazi coperti di neve. Respirai l’aria fresca, mi sentivo insolitamente leggiero.
……………………………………….. Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà: Capirà: oggi mi sento da tanto.
……….Chi è Dante.Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso: Virgilio è la Ragione, Beatrice la Teologia.
Jean è attentissimo ed comincio lento e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e là menando
come fosse la lingua che parlasse
mise fuori la voce e disse: Quando?
Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere “antica”.
E poi “Quando”? Il nulla.Un buco nella memoria. “Prima che sì Enea lo nominasse”. Altro buco. viene a galla qualche frammento non utilizzabile: “…la pietà del vecchio padre, né il debito amore Che dovea Penelope far lieta……” sarà poi esatto?
…………….Ma misi me per l’alto mare aperto
Di questo sì, di questo son sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché ” misi me” non è “je me mis” è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare   se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto; Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si  chiude su se stesso, libero diritto e semplice e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane.
Siamo arrivati al Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci deve essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori dalla trincea. mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare.
 “Mare aperto”. ” Mare aperto”. So che rima con  “diserto”; “……..quella compagnia picciola, dalla qual non fui diserto”,, ma non rammento più se viene pria o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle Colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio: Non ho salvato un verso, ma vale la pena di fermarcisi.
…………………………….Acciò che l’uom più oltre non si metta
“Si metta” dovevo venire in un Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima ” e misi me”. Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante.Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.
Ecco, attento PiKolo, apri gli occhi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguire virtude e conoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta; come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi pregava di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene: O forse è qualcosa di più: forse nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle. ………….e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol
dire “acuti”. Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile “……Lo lume era di sotto della luna” o qualcosa di simile; ma prima?….Nessuna idea “Keine Almug” come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.
-Ca ne fait rien. vas-y tout de meme.
………………Quando mi apparve una montagna bruna
per la distanza e parvemi alta tanto
che mai veduta non avevo alcuna.
Sì, sì “alta tanto”, non ” molto alta”, proposizione consecutiva: e le montagne, quando si vedono di lontano….le montagne……oh Pikolo, Pikolo, dì qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, biosgna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda.
Darei la zuppa di oggi per saper saldare ” non avevo alcuna col finale”. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, mi mordo le dita, ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi “…………la terra lagrimosa diede vento………..”no, è un’altra cosa. e’ tardi, e’ tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:
Tre volte il fè girar con tutte l’acque,
alla quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, come altrui piacque………
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come altrui piacque” prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e latro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui….
Siamo ormai alla fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Komandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle.-Kraut und Ruben?-Kraut und Ruben-. Si annunzia che la zuppa è di cavoli e rape- Choux et navets.- Kaposzta es repak
Infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso.  
 
  
 
 
 

  
 
 
 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 

  

 

 

 

La figura di Ulisse ieri ed oggi
Hom. Ody.L l.XII vv.184- 214

 

 

 

 

 

 

 

  

 

La presenza di Orfeo ed Euridice in Virgilio e Quasimodo

i1. Episodio di Orfeo ed Euridice in Virgilio

2. Salvatore Quasimodo – Dalla Silloge ” La vita non è sogno” Dialogo

3.Traduzione quasimodea dell’episodio virgiliano di Orfeo ed Euridice

4. L’interpretazione di Orfeo in Blanchot

VIRGILIO
At cantu commotae Erebi de sedibus imis
umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum,
quam multa in foliis avium se milia condunt,
vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber,
matres atque viri defunctaque corpora vita
magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae
impositique rogis iuvenes ante ora parentum;
quos circum limus niger et deformis harundo
Cocyti tardaque palus inamabilis unda
alligat et noviens Styx interfusa coercet.
Quin ipsae stupuere domus atque intima Leti
Tartara caeruleosque implexae crinibus angues
Eumenides, tenuitque inhians tria Cerberus ora
atque Ixioni vento rota constitit orbis.
Iamque pedem referens casus evaserat omnis,
redditaque Eurydice superas veniebat ad auras
pone sequens (namque hanc dederat Proserpina legem),
cum subita incautum dementia cepit amantem,
ignoscenda quidem, scirent si ignoscere manes:
restitit Eurydicemque suam iam luce sub ipsa
immemor, heu, victusque animi respexit. Ibi omnis
effusus labor atque immitis rupta tyranni
foedera terque fragor stagnis auditus Averni.
Illa: « Quis et me » inquit « miseram et te perdidit, Orpheu,
quis tantus furor? En iterum crudelia retro
fata vocant conditque natantia lumina somnus.
Iamque vale: feror ingenti circumdata nocte
invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas… ».
Dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras
commixtus tenues, fugit diversa neque illum
prensantem nequiquam umbras et multa volentem
dicere praeterea vidit; nec portitor Orci
amplius obiectam passus transire paludem.
Quid faceret ? Quo se rapta bis coniuge ferret?
Quo fletu manes, quae numina voce moveret ?
Illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba.
Septem illum totos perhibent ex ordine menses
rupe sub aeria deserti ad Strymonis undam
flevisse et gelidis haec evolvisse sub astris
mulcentem tigres et agentem carmine quercus;
qualis populea maerens Philomela sub umbra
amissos queritur fetus, quos durus arator
observans nido implumes detraxit; at illa
flet noctem ramoque sedens miserabile carmen
integrat et maestis late loca questibus implet.
Nulla Venus, non ulli animum flexere hymenaei
Solus Hyperboreas glacies Tanaimque nivalem
arvaque Riphaeis numquam viduata pruinis
lustrabat, raptam Eurydicem atque inrita Ditis
dona querens; spretae Ciconum quo munere matres,
 
inter sacra deum nocturni orgia Bacchi
discerptum latos iuvenem sparsere per agros.
Tum quoque marmorea caput a cervice revulsum
gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus
volveret,Eurydicem vox ipsa et frigida lingua,
ah, miseram Eurydicem anima fugiente vocabat,
Eurydicem toto referebant flumine ripas.
 
( Virgilio- Georgiche- libro IV vv.471-527)

  Traduzione quasimodea dell’episodio virgiliana
 
E subito dal più profondo Erebo,commosse dal canto,
ombre venivano leggere e parvenze di morti:
a migliaia, quasi stormi di uccelli che si posano
tra le foglie, quando la sera o l’aspra pioggia d’inverno
li caccia giù dai monti; donne e uomini, e corpi
di magnanimi eroi morti, e fanciulli e fanciulle,
e giovani arsi sul rogo davanti ai genitori.
E ora il fango nero e la squallida canna del Cocito,
e la palude lurida con la sua acqua pigra
ti stringe d’intorno, e lo Stige con nove giri li rinserra.
Stupirono le case di Lete e i luoghi più remoti
del Tartaro, e le Eumenidi dai capelli azzurri di serpi;
e Cerbero restò muto con le tre bocche aperte,
e la ruota d’Issione si fermò insieme al vento.
E già Orfeo tornava, vinto ogni pericolo,
ed Euridice veniva verso la luce del cielo
seguendolo alle spalle (così impose Proserpina),
quando una follia improvvisa lo travolse,
da perdonare, certo, se i Mani sapessero perdonare.
Orfeo già presso la luce, vinto d’amore,
la sua Euridice si voltò a guardare.
Così fu rotta la legge del duro tiranno,
e tre volte un fragore s’udì per le paludi d’Averno
. ‘Quale follia” ella disse, “rovinò me infelice,
e te, Orfeo? Il fato avverso mi richiama indietro,
e il sonno della morte mi chiude gli occhi confusi
. E ora, addio: sono trascinata dentro profonda notte,
e non più tua, tendo a te le mani inerti.”
Disse; e d’improvviso svanì come fumo nell’aria
leggera, e non vide più lui che molte cose
voleva dirle e che invano abbracciava le ombre;
ma chi traghetta le acque dell’Orco
non gli permise più di passare di là dalla palude.
Che poteva egli fare? Dove andare ora che la sposa
gli veniva tolta ancora con violenza? Con quale
pianto impietosire i Mani, con quale canto i numi?
Orma fredda, navigava nella barca dello Stige
Dicono che Orfeo pianse, per sette mesi, senza quiete
sotto un’alta rupe in riva al deserto Strimone,
e che narrò le sue pene dentro gelidi antri,
facendo mansuete le tigri,
e traendosi dietro le querce col canto.
Così dolente usignolo tra le foglie di un pioppo
lamenta i figli perduti, che crudele aratore
tolse dal nido, ancora senza piume; e piange
più la notte, e ripete da un ramo il canto desolato,
e le valli riempie di melanconici richiami.
Nessun amore, nessuna lusinga di nozze,
persuase l’animo d’Orfeo. E andò per i ghiacci boreali
. per il Tànai nevoso e le terre dei Rifei
sempre coperte di gelo, lamentando Euridice
e l’inutile dono di Dite. E le donne dei Ciconi,
sdegnate per l’amore respinto,
nelle orge notturne, durante i riti di Bacco,
dispersero per i campi le sue membra dilaniate.
Anche quando il capo, staccato dal candido collo,
l’Ebro Eagrio portava travolgendolo nei gorghi,
la voce, e la lingua ormai gelida: “Euridice”,
chiamava mentre l’anima fuggiva: “O misera Euridice”
. “Euridice”, ripetevano le rive lungo il fiume. »

Il mito di Orfeo nell’interpretazione di Blanchot

La fondazione esistenziale nell’analisi strutturale
 Senso o non senso della scrittura? (Blanchot, Barthes).
 
A cogliere la differenza fra lo strutturalismo ‘ontologico’ e quello che proponiamo di chiamare ‘esistenzialle’, è particolarmente adatta l’opera di Maurice Blanchot…………………………….. ……………………………………………………………………………………………………….
Per Blanchot, la struttura è certamente un “essere”, ma né alla maniera metafisica, né in quella di Levi-Strauss (come cioè un’entità che viene alla luce attraverso un lavoro di `laboratorio’), bensì come un fenomeno di esistenza del soggetto, per il quale l’opera ha un senso soltanto quando comincia ad “essere’” per un soggetto che la sperimenta sul piano della vita o nello scriverla o nel leggerla: “Lo scrittore scrive un libro, ma il libro non è ancora l’opera, l’opera non è tale se non quando in essa, nella violenza di un convincimento che le è proprio, si pronuncia la parola “essere”: evento che si compie quando l’opera è l’intimità di qualcuno che la scrive e di qualcuno che la legge”.
In questa ricerca dell’Essere, al di là dell’apparenza fenomenica, in questa apertura dell’opera all’Essere e quindi in questa comunione tra chi scrive e chi legge, nell’intimità dell’opera, riecheggia la filosofia esistenzialistica di Heidegger, fondata sull’idea del primato di quell’Essere che è presente nell’esistenza dell’uomo. “L’essere” afferma Heidegger – è senz’altro presupposto da tutte le ontologie finora esistite: ma non- criterio disponbile, bensì come di ciò di cui si va alla ricerca”.  E questa ricerca dell’essere è propria di Blanchot: l’essere è quel qualcosa, quel concetto, e quindi quella struttura che fa sì che l’opera, nel suo divenire tale, cerchi se stessa.
A questo proposito si può ricordare che Heidegger precisava che non è sufficiente, per spiegare il mondo, il trovarne l’essere, ma che è necessario trovare il `senso’dell’Essere……Ogni artista per Blanchot è un Orfeo che discende negli oscuri meandri dell’essere verso Euridice, che è “ per lui, l’estremo dell’arte che possa raggiungere”, è il senso dell’Essere…………………L’ontologia per Blanchot è quindi una continua ricerca dell’essere. “Il mito dimostra –egli scrive ancora –ugualmente che il destino di Orfeo è anche di sottomettersi a questa legge ultima; e certamente , volgendosi verso Euridice, Orfeo distrugge l’opera, l’opera si disfa, ed Euridice ritorna nell’ombra”.  Il guardare Euridice è l’ispirazione, è cioè il momento in cui lo scrittore antistrutturalistícamente dimentica l’opera, per richiamarsi a qualcosa che la supera ; e la comprende, cioè all’Arte, all’Essere; in quello stesso momento “1’opera è perduta”, ma in quello sguardo essa riesce a “superarsi”, ad “unirsí” alla sua origine e consacrarsi nell’impossibilità”. Lo sguardo quindi è l’ultimo dono di ogni artista alla sua opera, ma è anche il momento solenne in cui la sacrifica. Lo sguardo può così davvero paragonarsi alla heideggerianaricerca del senso dell’essere che non può non essere il compito fondamentale dell’artista, anche in questa sua rinuncia all’opera. “Scrivere – dice Blanchot – comincia con lo sguardo di Orfeo… Ma per arrivare a questo istante, Orfeo ha avuto bisogno della potenza dell’arte”. ‘ L’opera di per sé è muta. Nel momento in cui l’artista si rivolge verso l’Essere, l’ìncantesimo si compie; l’ispirazione è la negazione dell’opera in sé e per sé, ma l’opera sollecita l’ispirazione, il legame cioè con la “struttura ontologica dell’esistenza” ……………………………………………………………………………………….Ci sembra esatta l’affermazione di Perlini “Blanchot si muove in un cerchio, affascinato come la farfalla intorno al fuoco della candela, attratto irresistibilmente dal volto meduseo della filosofia heideggeriana ed in questo senso si pone “ al di là dell’ambito razionalistico entro cui andrebbero circoscritte le recenti esperienze della cosiddetta nouvelle critique”
Soprattutto tra Blanchot e gli strutturalísti c’è di mezzo, come abbiamo visto, Heidegger e l’esigenza di filtrare ì temi dello strutturalismo attraverso la problematica esistenzialista. L’imbarazzo della critica sembra così riprodurre il circolo chiuso della teoria stessa di Blanchot ed è un cerchio fatato in cui finisce con l’essere coinvolto anche il lettore. Blanchot, cioè, si scaglia contro la lettura “banale”; questo tipo di lettura fa del libro, cioè dell’opera modellata dagli uomini, quello che il mare e il vento fanno della pietra: la rendono più liscia: “il frammento caduto dal cielo, senza passato, senza avvenire, sul quale non ci poniamo domande quando lo vogliamo”.” Ma se questo per Blanchot è possibile per il ” libro non letterario” (che è il libro scritto per essere letto così), non lo è per il libro che “ha origine nell’arte”; questo libro non è un significante di una rete di significati, non ha quindi, né può avere una sua struttura-modello, ma è un non-senso, nella misura in cui “non ha la sua garanzia nel mondo, e quando viene letto non è stato mai letto, pervenendo alla sua presenza di opera soltanto nello spazi aperto da una lettura unica che ogni volta è la prima e la sola”.  In termini heideggeriani, il libro non può quindi avere una struttura né ontica’ (cioè di ciò che è alla maniera delle cose), né metodologica, ma sola una struttura ontologica (cioè di ciò che é alla maniera dell’esistenza) e quindi esistenziale dell’essere: “Ogni ontologia, per quanto disponga di un sistema di categorie ricco e ben connesso, rimane, in fondo, cieca e falsante rispetto al suo `intento’ più proprio, se non ha in primo luogo sufficientemente chiarito il senso dell’essere e se non ha concepito questa chiarificazione come il suo compito fondamentale”.’ Anche Blanchot non si accontenta di rintracciare la struttura come essere, bensì ritiene necessario trovare il senso di essa: per Heidegger il senso dell’essere è un concetto essenzialmente etico (la Cura), per Blanchot il senso dell’essere è l’arte. Ogni artista per Blanchot è un Orfeo che discende negli oscuri meandri dell’essere, verso Euridice, che è “per lui, l’estremo che l’arte possa raggiungere”, è il senso dell’essere. Ma la sua opera non è un semplice  avvicinamento a questo `punto’ scendendo verso la profondità”, ma è una continua “apertura” (termine heideggeriano) dell’Essere: “La suaopera è di riportarlo [il `punto’] al giorno e di dargli, nel giorno, forma, figura e realtà”.  In questo modo Blanchot denuncia la crisi di quella che abbiamo chiamato la `ontologia senza essere’, e nel contempo la supera:Il  mito greco dice: si può produrre un’opera solo se l’esperienza smisurata della profondità non è perseguita per se stessa. La profondità non si consegna apertamente, e si rivela solo dissimulandosi nell’opera”. L’ontologia per Blanchot è quindi una continua ricerca dell’essere. Ma appunto in questo superameto dello strutturalismo ontologico per mezzo dell’esistenzialismo heideggeriano c’è anche il limite, forse più vistoso, dell’`esistenzialismo’ di Blanchot. “Il mito dimostra – egli scrive ancora – ugualmente che il destino d’Orfeo è anche di non sottomettersi a questa legge ‘ultima'; e, certamente, volgendosi verso Euridice, Orfeo distrugge l’opera, l’opera immediatamente si disfa, ed Euridice ritorna.”
Tratto da  G. Puglisi: Che cosa è lo strutturalismo- Ubaldini editore 1970 pp.63 sgg.

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