IL NEOCLASSICISMO

Il Neoclassicismo
E’ quasi impossibile definire il periodo che intercorre dagli ultimi anni del ‘700 al primo ventennio dell’800 con un unico termine comprensivo delle varie tendenze di gusto e di tutti gli avvenimenti occorsi. Usare come denominatore comune il termine neoclassicismo oppure preromantcismo è utile solo in senso strettamente scolastico, ma in realtà sia l’una che l’altra definizione non corrispondono che a componenti diverse, ma altrettanto importanti e dominanti in questo periodo. Invero molto complessa fu in Italia la civiltà dell’Illuminismo: le differenti situazioni storico-sociali nelle varie parti d’Italia, gli influssi della cultura francese e di quella inglese, il sovrapporsi del sensismo e del naturismo di Rousseau resero mosso il panorama culturale italiano fra il 1750 e la fine del secolo. Questa varietà si accentuò quando il fallimento in campo politico dell’illuminismo delle stesse ideologie ingenerate in seno allo stesso movimento culturale. Ed è proprio per questa diversificazione di componenti presenti nell’ultimo 700 che alcuni critici preferirono parlare di neoclassicismo, altri di preromanticismo, ma forse, nota il Petronio, sarebbe meglio definire storicamente questa fase di cultura parlando di “età della rivoluzione francese e di Napoleone”. E’ evidente che ci troviamo di fronte alla piena crisi dell’illuminismo, del quale si sono ormai rifiutati l’astrattezza dei principi,la critica demolitrice delle tradizioni e del passato, il facile ottimismo riguardo ai problemi umani ed alla trasformazione della società. Vengono così a mancare tutti i cardini del sistema razionalistico: meccanicismo,misticismo, deismo,empirismo,ottimismo. Contro il cosmopolitismo e l’umanitarismo insorge l’amore per la patria, per le sue memorie, si vivifica il concetto della nazione intesa come organismo storico ben distinto da ogni altro, sorge il sentimento dell’individualismo presente in forma pregante in Vittorio Alfieri. Anche la natura, concepita dagli illuministi come mero organismo fisico, regolato da leggi meccaniche viene via via intesa come qualcosa di più vivo, pervaso da forze sempre nuove. La rivoluzione francese, d’altra parte naufragata prima nella demagogia, poi nell’oligarchia, infine soffocata dall’imperialismo napoleonico napoleonico, ha reso palese l’impossibilità di attuare le premesse democratiche , cui i teorici dell’illuminismo avevano dato l’avvio. Non tutto dell’illuminismo viene,però smentito e contraddetto. Rimane una parte sostanziale di concetti, che rappresentano l’imprescindibile strato culturale della maggior parte dei grandi autori dell’800. Restano accreditati r vengono anzi riaffermati certi valori quli la libertà dell’uomo e il diritto naturale, sui quali si elaborano prospettive diverse o più ampie : dalla libertà proiettata in tutte gli impulsi vitali dello spirito all’idea di patria e di nazione.
Per quanto concerne il problema strettamente letterario non si è perduta dell’illuminismo la grande lezione di rinnovamento,comprendente contenuti morali e civili tendenti oltre che linguistici atti a promuovere una cultura viva radicata nella società. L’antinomia tra età illuministica ed età neoclassica e/o preromantica conseguentemente appare del tutto artificiosa ai fini di una corretta indagine critica. Molti critici propendono a definire periodo,oggetto del nostro interesse, neoclassico, permeato di spiriti romantici. Invero gli autori più apprestanti del tempo, pur non neglegendo la parte più vitale e proficua della lesione dell’illuminismo, tendono a rivivere forme di vita appartenenti al passato con struggente nostalgia. E la nostalgia si connota di venature intensamente romantiche quando i nostri autori mirano ai lidi dell’ Ellade, ”vano ricordo dell’età passata”, in cui si contempla la bellezza assoluta rasserenante e rasserenatrice. Ne consegue che la componente preromantica dell’età del neoclassicismo è volta alla malinconia, alla tenerezza, al sogno. Anche in questo caso ci pare di non ravvisare un hiatus con l’età illuministica, ma piuttosto un continuum. Infatti tutta l’epoca illuministica è pervasa da presentimenti romantici, quali il gusto per il primitivo, il sentimentalismo, l’ossianismo , la tendenza all’elegiaco, l’esaltazione dello stato di natura. Le forme espressive che testimoniano quest’insieme di aspirazioni, di sentimenti, di gusto trovano anche in Italia vasta applicazione, ma quasi per riflesso di di certa letteratura nordica tradotta e diffusa in quel torno di tempo ( la poesia dei poeti inglesi Young e Gray,la poesia campestre dello svizzero Gessner, la poesia ossianica di Macpherson, tradotta in Italia in versi sciolti dal Cwsarotti). Questo gusto si legava d’altra parte ad un’esperienza già avviata e fiorita nello stesso 700 e nell’ambito dell’Arcadia, che esauritasi come movimento innovatore, aveva continuato nel secondo ‘700 a vivere come accademia di poeti e di cultori del bello. Alla contemplazione della natura, al sentimento del bello in essa ingenita, non erano estranei neppure i pensatori dell’età illuministica. Basti pensare all’orizzonte aperto da Rousseau col suo culto della natura e con la sua rivalutazione del sentimento sulla ragione. Alla sensiblerie francese si aggiunge presto l’influsso del romanzo inglese, soprattutto di Richardson (rivelatore del cuore umano) nonché di Ossian (paesaggi cupi, chiaroscuri lunari,passioni tempestose, malinconiche ) e la poesia sepolcrale di Young. Possiamo affermare ,pertanto, che già in questo periodo sussistono i germi prodromici al romanticismo. Invero l’età neoclassica tendev a richiamarsi al passato, alle tradizioni al fine di sviluppare una coscienza storica, a prendere coscienza del passato, a trarre da esso exemplun per il conseguimento di una più concreta libertà nazionale da contrapporre alle ideologie utopistiche di stampo illuministico. Si cerca di dare alla cultura una forte impronta di italianità e lo stesso Alfieri viene visto come”maestro d’italianeità”. Si tende,inoltre, preconizzando uno dei motivi fondanti l’età del romanticismo, ad indirizzare la letteratura al popolo al fine di promuoverne una coscienza matura ed operante nel contesto socio-politico. Adduciamo ad esempio il Cuoco, che nella sua opera Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 concepisce le cause del fallimento della rivoluzione in una mancata adesione popolare in quanto il popolo non era ancora educato e maturo all’ide0a di libertà nazionale.
La temperie classico-romantica,invero, non tende soltanto alla memoria e alla coscienza del proprio passato, ma manifesta, altresì, la volontà di rinnovarsi richiamandosi al paradigma di quel passato, che costituiva soprattutto il ritrovamento di un ideale umano ed eroico che il mondo classico aveva posto in luce e che ora costituiva la pietra di paragone per l’uomo nuovo, duramente messo alla prova da repentini mutamenti.
L’era neoclassica è pertanto un vasto mutamento culturale e morale che si configura a causa di influenze varie e che porta alla rivoluzione dei canoni di perfetta bellezza, tipici del mondo greco. Non è ripetizione di forme e di sentire del passato; è,invece, un anelare verso un mondo lontano di armonia e di bellezza, di beatitudine, di cui la desolata anima dell’uomo del tempo avverte l’insopprimibile esigenza. Persiste tuttavia in tale tempo l’estetica del decoro esteriore, il culto della tradizione letteraria. Il che è chiarito dalla frase di A.Chenier ”Su pensieri nuovi facciamo versi antichi”. Opportunamente opina il Binni: Il neoclassicismo è una sintesi fra forme tradizionali e spirito romantico, è da considerarsi un tempo di maturazione più di transizione,in cui fra l’altro troviamo il culto della bellezza.
Il pensiero di Machiavelli e Vico, invero, la ripresa dei valori dei valori nazionali costituiscono in questo periodo il fermento di idee che alimenteranno le forze vitali del nostro risorgimento.
Bisogna,inoltre,ricordare che in Italia il gusto del classicismo ed il rispetto per il passato e per le tradizioni non aveva mai cessato di essere;tanto è vero che i modi con cui i nostri pensatori avevano reagito alle influenze d’oltralpe risentintivano di un carattere tipicamente nostrano.
Tutto il’700 era stato classicheggiante;in un primo momento,cioè durante il diffondersi della sensibilità e della cultura dell’Arcadia il ricorso al paradigma classico si connotava come componente razionale ed ordinatrice in campo estetico in contrapposizione agli eccessi del barocco ; in un secondo momento, e cioè con il diffondersi della cultura illuministica la lezione del classicismo viene intesa come componente equilibratrice dell’estremo razionalismo francese e promuove un felice incontro tra passato e presente aprendo nuovi orizzonti sull’esistenzialità dell’uomo nel mondo ed avviando quel processo di riforme , che troveranno compimento nell’età romantico-risorgimentale.
In Italia l’Illuminismo assume un carattere più moderato rispetto a quello improntato dai filosofi francesi. Gli Italiani,in effetti, non ripudiarono mai il passato e non accolsero le concezioni ateistiche. Prevalente è stato per gli Italiani la volontà di attingere dai pensatori dell’illuminismo francese in particolare lo spirito delle riforme propugnate. Gli scrittori dei circoli napoletani e milanesi trassero linfa dal pensiero illuminista incentrando il loro interesse sulla necessità che urgeva all’Italia e agli Italiani e che era rappresentata dall’inderogabile attuazione di riforme. Il dictamen illuminista,pertanto, pertanto si relaziona al vissuto storico ed ha una valenza tipicamente nostrana.
E’ d notare che proprio nell’età dei lumi si comincia a delineare una nuova concezione del classicismo ed insieme se ne elaborano le prime teorie critiche, peraltro in qualche misura presenti anche ai nostri giorni . Si dà cominciamento alla distinzione tra classicismo di maniera ,quale era stato quello del’600 e dell’Arcadia ed il classicismo autentico dei veri grandi poeti. Se quindi il classicismo come culto di esempio di bellezza e di spiritualità non si era mai spento in Italia, dobbiamo precisare che nel periodo, che trattiamo, la coscienza del passato è più matura; il classicismo in atto evocato dai nostri autori è, per dirla alla maniera crociana, un classicismo dinamico.

Una rivalutazione  della nostra civiltà più remota è quella proposta dal Cuoco nella sua opera Platone in Italia

Al fine di rinverdire il passato nella sua perfezione formale non mancano in Italia i teorici del bello ideale classicamente concepito. Queste teorie furono stimolate da noi da un richiamo venuto dalla Germania, dove già in pieno ‘700 alcuni studiosi avevamo celebrato la bellezza apollinea dell’Ellade.

Ricordiamo a tal proposito i due maggiori rappresentanti Winkelmann e Lessing, teorizzatori del bello apollineo che si contrappone nei termini nicciani al bello dionisiaco.

 

 

 

 

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Niccolò Machiavelli e la famiglia Borgia

Niccolo Machiavelli e la famiglia Borgia
 
 
Per documentare il rapporto tra Machiavelli e i Borgia prendiamo in esame tre lettere scritte dal segretario fiorentino.
La prima (Die 7 octobris 1502) si riferisce alla II legazione del Machiavelli al Valentino.
Il duca intendeva espandere il suo potere, ma lo status politico era pericoloso a causa di una congiura, ordita ai danni di Cesare Borgia, da un gruppo di condottieri e signorotti locali, che prima gli erano stati fedeli.
Il Machiavelli intuisce che la situazione, in cui versava il Valentino poteva precipitare in una svolta estrema , che avrebbe potuto causare la rovina degli Stati.
Non erano ancora note le posizioni dei Francesi ai Fiorentini, ma allorquando il Valentino chiese di trattare l’alleanza, fu proprio scelto Machiavelli, il più abile “lettore” della politica del tempo, ad affrontare nella qualità di ambasciatore questo difficile momento storico.
Così il Machiavelli si esprime nell’incipit della lettera:
“Magnifici et excelsi domini , domini mei sigularissimi( Sono i Dieci di Balia per i quali il Machiavelli prestava i suoi servigi) Trovandomi io a partirei costì non molto bene a cavallo…………………….mi presentai subito a Sua Eccellenza, la quale mi accolse amorevolmente; io presentandogli le lettere di credenza gli esposi la cagione della mia venuta. Di poi scesi alla separazione fatta dagli Orsini e alla dieta loro e loro aderenti,( si riferisce alla congiura dei condottieri) e come V. S. erano destramente state ricercate, e quale animo sia il vostro rispetto all’amicizia che tenete col re di Francia e devozione che conservate verso la Chiesa amplificando con tutte le parole mi occorsero, quello vi stringe a seguire l’amicizia di questi, e fuggire quella degli avversari loro; testificandogli come in qualunque momento, V.S. sono per avere tutti quelli rispetti alle cose di Sua Eccellenza, che si convengono alla buona amicizia che tenete con il re di Francia e alla divozione che avete portato sempre a Sua Signoria; reputando tutti gli amici di Francia vostri amicissimi e confederati”
La lettura dell’incipit della lettera ci fa chiaramente comprendere come il Machiavelli, nel rapporto con il Valentino e con la casa Borgia in generale, ( si pensi all’attenzione che rivolge alla Chiesa per l’appunto impersonata dal papa Borgia Alessandro VI) tenda a leggere la realtà effettuale degli eventi e cominci a realizzare la concezione di uno stato necessitato che possa radunare le “membra sparte” degli Stati Italiani.
Non poteva, pertanto, il Machiavelli non interessarsi ai Borgia che detenevano il potere temporale della Chiesa come pure non poteva disconoscere il ruolo che la Francia assumeva nel gioco politico del tempo.
Anche il rapporto con i Borgia fu, pertanto, per il Machiavelli una “necessità”.
Ma dallo stato di “necessità”, come vedremo innanzi il segretario fiorentino seppe trarre linfa per maturare il suo pensiero politico.
Come opportunamente afferma il Sasso, uno dei più autorevoli critici del Machiavelli : “Nella legazione a CesareBorgia, a contatto con un uomo impegnato in una situazione difficile ed ambigua, fatta di rischi sottili e di imprevedibili minacce, il Machiavelli vien dunque confermando e precisando le sue osservazioni sulla “necessità dello assicurarsi”, di abbandonare ogni indecisione e ogni incertezza, di scegliere sempre non le vie di mezzo, ma una condotta chiara ed estrema. .E, se certo, la consapevolezza che egli ora mostra di questi problemi è ben lontana da quella delle grandi opere, ciò non toglie che i termini essenziali del problema sono già presenti alla sua riflessione; le linee della sua concezione sono sostanzialmente indicate”
La seconda lettera (Datum Imolae 8 novembris 1502 ) è assai interessante in quanto in questa si comincia a delineare ancor con maggior perspicuità l’ideologia del Machiavelli.
Si può affermare in linea con la critica più accreditata che “il vero valore della legazione di Imola sta nella cruda lezione politica, che il Machiavelli registra e comincia a trascrivere in una coerente concezione politica” e per dirla sempre colle parole del Sasso “in questa prima affermazione della necessità, “per assicurarsi” di venir meno ai patti e alla parola data”
Il rapporto con i Borgia è, infatti, sempre da intendere sotto l’aspetto della categoria della “necessità storica” più che sul convincimento personale dell’autore.
Il Machiavelli nella prima parte della lettera dice di avere avuto un ragionamento con “quell’amico”, che altri non era se non il segretario del Valentino. E’ certamente un espediente valido per far comprendere la precarietà della contingenza storica , le ansie e le preoccupazioni del duca, di cui al contempo si esaltano quelle che sarebbero in seguito state per il Machivelli le doti peculiari del principe : la forza del lione e l’astuzia della golpe.
In questi termini ,infatti, si rivolge l’interlocutore al Machiavelli: “Segretario,io ti ho qualche volta accennato che lo stare in generale quei tuoi Signori con questo Duca fa poco profitto a lui e manco a loro perché il Duca, vedendo rimanersi in aria con vostre Signorie, fermerà i piè con altri………..Questo Signore conosce molto bene che il Papa può morire ogni dì e che bisogna pensare di farsi avanti la sua morte qualche altro fondamento volendosi mantenere gli stati che lui ha. Il primo fondamento che fa è sul re di Francia; il secondo sulle armi proprie……E poiché giudica che col tempo questi due fondamenti potrebbero non bastargli, pensa di farsi amici i vicini suoi e quelli che di necessità conviene che lo difendano………E cominciando tu vedi con Ferrara con quale amicizia si è fatta , perché oltre al parentado della sorella con tanta dote (Lucrezia Borgia sposò in seconde nozze nel 1501 il figlio del Duca di Ferrara, Alfonso d’Este) , si è benificato e benificasi tutto dì del cardinale suo”( Ippolito d’ Este)
Il ritratto del duca, invero, non si rapporta al personaggio reale, ma con l’ideale del principe, che man mano si configurava nella mente del Machiavelli e che doveva essere capace di mantenere unita l’Italia con l’appoggio della Francia servendosi altresì della religione come “instrumentum regni”.
Per questo la risposta del Mchiavelli al suo interlocutore non ci deve sembrare tanto encomiastica nei confronti del personaggio Valentino, quanto dell’uomo ideale, che la mente di Machiavelli vagheggiava, per sanare le piaghe degli Stati Italiani.
Così il Machiavelli, infatti, si esprime : “Io replicai brevemente e solo a quelle parti che importavano. Dissi in prima che questo Signore faceva prudentemente ad armarsi,e farsi amici; secondo gli confessai essere di noi desiderio assai…..terzo, quanto alla sua condotta, io gli dissi ,parlando sempre come da me, che l’Eccellenza di questo duca non si aveva a misurare con gli altri Signori, che non hanno se non la corazza, rispetto allo stato che tiene; ma ragionare di lui con il quale sta meglio fare una lega e un’amicizia che una condotta .E perché le amicizie tra i Signori si mantengono con le armi, e quelle sole le vogliono fare osservare, dissi che Vostre Signorie non vedrebbero che sicurtà si avesse avere per parte loro, quando i tre quarti o i tre quinti delle armi fossero nelle mai del Duca. Né dicevo per non giudicare il Duca uomo di fede, ma per conoscere le Signorie Vostre prudenti, e sapere che i Signori devono essere circospetti, e non dover fare mai cosa dove possono essere ingannati”
Dalla lettura di questo brano ci accorgiamo che il Valentino sembra connotarsi di tutte le caratteristiche fondamentali che in seguito caratterizzeranno il principe machiavelliano.
La terza lettera (4 novembris 1503) è stata scritta dopo la morte di Alessandro VI.
Al soglio pontificio era salito Giuliano della Rovere che aveva assunto il nome di Giulio II.
Il nuovo pontefice era stato un acerrimo avversario del papa Borgia e per questo motivo era stato esiliato per dieci anni.
La condizione del Valentino è adesso disperata. Dimostra di non possedere una “virtus” sua e la morte del padre non gli consente di mantenere quel potere sin in quel momento esercitato.
Per la prima volta vediamo che il Machiavelli assume un atteggiamento critico nei confronti del Valentino, che prima aveva ampiamente lodato.
Il che , però, non deve essere interpretato come un atto di incoerenza da parte del Machiavelli.
Invero, come abbiamo cercato di dimostrare, la parabola della casa Borgia coincide ampiamente con l’esperienza vissuta e maturata nella vita e nella coscienza politica del Machiavelli.
Ma il rapporto con la casa Borgia è stato sempre di natura estrinseca e legato alla “ragione di stato” e alla concezione politica in generale più che sull’autenticità dei personaggi.
Si è parlato e, non a caso, della parabola della casa Borgia , una casa, invero,
che dominerà tanta parte della storia, di cui il Machiavelli, che indagava sulla “lettura effettuale delle cose” non poteva non essere conoscitore, ma poi destinata a perire per l’assenza di quei valori paradigmatici che ben presto l’opera del Machiavelli ci propugnerà.
Nella concezione matura machiavelliano il mondo prammatico della politica tende a coincidere con quello paradigmatico e si afferma il concetto di “virtus” non più intesa come vis da riferire altresì a vir, ma come valore intrinseco all’uomo con implicanze di natura etica.
Inoltre il Machiavelli non accetta che il Valentino continui ad usare quell’animosità, che aveva sempre avuto nei confronti dei suoi avversari, e che adesso le diversificate condizioni storiche non gli consentono.
Alcuni brani della lettera, che appresso si riportano, sono indicativi del mutato atteggiamento del Machiavelli nei confronti della casa Borgia e per il nuovo volgersi dei tempi, ma soprattutto perché nel segretario fiorentino urgevano nuove istanze, che avrebbero in seguito sostanziato la sua concezione politica.
Il rapporto con la casa Borgia rimane, tuttavia, come una condizione necessitata dalla ragione storica dei tempi , mentre il paradigma ideale dell’ideologia politica machiavelliana adesso si volge ad altre figure anche del tempo antico leggendo il presente, come dice per l’appunto il segretario fiorentino,attraverso la continua lezione del passato.
Si comprende, pertanto, perché il Valentino non sarà più per l’autore l’inspiratore del Principe e perché , proprio alla chiusa della lettera il Machiavelli si rivolge a Giulio II che da ora innanzi diventerà “exemplum” della coeva civiltà.
Ad esemplificazione di quanto enunciato e per concludere il nostro discorso riferiamo alcuni stralci della lettera:
“Trovasi el Duca in un palazzo, in uno luogo che si chiama Stanze nuove, dove sta forse con quaranta dei suoi primi servitori; non si sa se si deve partire o stare……….altri dicono che non è per partirsi di Roma, ma per aspettare la incoronazione del papa, per essere fatto da lui gonfaloniere di Santa Chiesa…….altri credono che sono de’ manco prudenti………………………. perchè gli è noto el naturale odio che Sua Santità gli ha sempre portato , e non può sì presto aver smenticato l’esilio, nel quale è stato per dieci anni: et el Duca si lascia trasportare da quella sua animosa confidenza ; e crede che le parole sue siano più ferme che non sono sute le sue, e che la fede data de’ parentati debba essere data. Io non posso dire altro delle sue, né determinarmi ad un fine certo: bisogna aspettare el tempo, che è padre della verità.
Sembra che sia questa la prima volta che l’autore relazioni il tempo alla verità.
Segno questo che il nostro vuol andare oltre la verità effettuale delle cose, anche per considerare la sua vicenda con i Borgia non più nei termini di una contingenza storica definita, ma nell’ambito di una più ampia concezione storica nel tempo ed attraverso il tempo.
La chiusa, infine, della lettera evidenzia l’interesse del Machiavelli nei confronti di Giulio II , figura del tutto antitetica a quella di Alessandro VI
“Credo che questo dì, o domani al più lungo mi presenterò, mi presenterò al Papa, e del seguito ne darò notizia a Vostre Signorie, alle quali mi raccomando”
 
 
 
 
 
 

Tommaso Dell’Era : una voce del tempo e nel tempo

L’incipit del romanzo.  L’eremo: topos ideale
 Nell’incipit del romanzo così si esprime l’autore: “ Non avevo mai viaggiato in cuccetta. E non ce n’era bisogno: non ultima delle mie virtù è quella di durare al sonno, senza mescere, s’intende vino annacquato all’osteria delle idee”.
Mi pare che con questa premessa l’autore voglia già stabilire un “patto” con il lettore.
La metafora del vino correlata all’“osteria delle idee” è tanto realistica quanto efficace e riesce a  prefigurarci i toni ed i colori del romanzo, la cui voce narrante è quella dell’autore stesso, che colloquia con il suo lettore in forma schietta ed immediata e si propone come personaggio autentico della vicenda, che si appresta a narrare.
A pag.12, inoltre, l’autore indulge ad un’altra confessione: “Provai a considerare freddamente i rapporti con l’umanità: se l’amore per essa fosse sincero o soltanto letterario……………..”.
A pag. 20 l’autore aggiunge:  “Come si fa a non richiamarli all’ordine questi folletti pensieri quando capriolano in una partita doppia o nella consecutio? Corbellano la faticosa onorabilità di un ragionere-umanista.
Li lasciai sfogare. Mi tirarono per le maniche in un’aerea grotta a caccia di stelle……”.
Notiamo subito la plurivocità del linguaggio correlata alla pluridimensionalità narrativa.
Il Dell’Era mescola un linguaggio realistico a cifrari linguistici di significativa
valenza lirica. Segno questo che il racconto dell’autore si snoda nei termini non del mero realismo, ma piuttosto di un’ideologia del realismo, che giusta la grande tradizione del pensiero filosofico-culturale novecentesco, accoglie fermenti di vita, ansie ed attese rinvenibili nel diario dell’animo in un legame estetico con il mondo della natura e della storia.
L’orizzonte di attesa, infatti, per il lettore si allarga e di certo il nostro, come vedremo, non verrà meno alla “scommessa” che lancia al lettore e a tutta quanta la coeva letteratura scrivendo un’opera densa di contenuti, rivisitati dal suo“io”e comunicata a noi nelle forme autentiche di una narrativa che propone grandi valori del tempo e nel tempo.
Un mondo spirituale complesso quello del Dell’Era, che inizia a delinearsi con la visita ad Assisi.
L’autore dichiara a pag. 17 di “togliersi ogni altra idea di mente e disporsi allo spirito francescano” ed aggiunge: “niente arte-solo templi di preghiera-non Giotto pittore: Cristo, che parla, non Cristo bizantino.”
Questa enunciazione ci appare di vitale importanza. Il Dio, che l’autore cerca è, infatti, un Dio della sofferenza, un uomo che parla all’altro uomo, assai vicino al “pensoso palpito” ungarettiano o al “dio di anima e di pietra” quasimodeo.
Non ci sorprenderemo, allora, che sarà la copia del Crocifisso, il cui originale lo aveva lasciato freddo a S.Chiara, a suggerire all’autore, nell’umbratile quiete di S. Maria degli Angeli queste considerazioni: “Qui non mutò la sua posa bizantina, ma nella penombra pietrosa dell’antica selva, capivo come avesse potuto parlare a un fraticello ovvero che un fraticello credesse di lui le voci dei rami o del suo desiderio”. .E questo era avvenuto perché il “locus”, dove ora si trova il nostro non è “locus amoenus” per rigoglio di natura e di vegetazione, ma è “locus umbrosus”.
L’umbratilità del paesaggio, è, peraltro, cara ai poeti ermetici, che nell’“umbra” raffigurano il silenzio ed il ripiegamento su se stessi. Umbra/ Silenzio nella poesia ermetica preparano la parola. Così pure dalla “penombra pietrosa” l’autore comprende come la parola di Dio avesse potuto parlare ad un fraticello anche attraverso “la voce degli alberi”.
Assai significativo è il campo semantico “penombra pietrosa”; i due termini sembrano antitetici; impalpabile e labile l’ombra, che viene, invece, aggettivata con “pietrosa”, che ci riconduce ad una sensazione di terrestre fissità quasi a definire il “pondus” ed il travaglio dell’esistenza umana.
Questi aspetti contrastanti, invero, fanno parte del paesaggio dell’anima del nostro autore e sovente costituiscono il nucleo fondante dei suoi itinerari esistenziali e delle sue illuminazioni poetiche.
Così l’autore, mirando l’orizzonte, si esprime a pag. 2: “dal davanzale fiorito sulla vallata: sempre più tenue all’orizzonte sino a confondersi col cielo: un verde soffuso di azzurro o un azzurro soffuso di verde.”
I “colores verborum” ora diventano “colores animae”. Azzurro e verde sono soffusi da un abbraccio di luce. Non più la “penombra pietrosa”, ma un vivido cromatismo: azzurro e verde (tensione all’infinito ed attesa ) che si volgono alla luce ( promessa di rivelazione ? ).
Eppure nel nitore di questo paesaggio, quasi a rappresentare il travaglio del nostro “existere” nel tempo compare l’“umbra” di “un fraticello piagato e semicieco” per cantare un cantico a Dio”.
Anche l’autore, allora, sente il bisogno di rinchiudersi in se stesso: “non è un delitto rubare una notte all’Eremo di Francesco, rubare le voci che solo lui aveva ascoltato” (pag.30).
Ma nel peregrino urge forte il senso della terrestreità: il dio da lui invocato è un “deus incohatus”. Infatti così aggiunge:“affondare nella terra…….colore nei fiori….ansia nei pollini……fibra tra le antiche fibre di lecci…..”
Forse come Ungaretti anche il nostro vorrebbe essere “fibra dell’universo” per scoprire l’universo accordo delle cose senza, però, rinunciare alla sua condizione di uomo in questa terra.
Del tutto dissimile è la condizione mistica del frate, che ci viene presentata a pag.32. “Al tocco della campana tutti si mossero; uno solo restò: la bianca barba schiacciata sul petto, gli occhi socchiusi nel sogno del suo paradiso : vi aveva giocato la carta dell’esistenza e non poteva restarne deluso. E desideravo che avesse ragione, che si destasse tra i cori degli angeli, nella nicchia di azzurro, in cui aveva raccolto tutti i suoi desideri”.
Ci accorgiamo subito che il paesaggio, in cui si muove il frate, è del tutto mistico e atemporale. “Sogno”, “nicchia di azzurro”,“cori degli angeli” ci trasferiscono in un mondo metafisico sublimato dall’ incrollabile fede del fraticello.
Nel Dell’Era, invece, pulsa la vita anche colle sue ansie nelle radici stesse della terra.
L’autore riesce così in modo quanto mai efficace a raffigurarci, attraverso la metafora delle immagini e con un appropriato linguaggio poetico la spiritualità tormentata dell’uomo del‘900, il quale, seppure tende ad un Assoluto ed è incline ad ammirare colui, che proprio dell’Assoluto, dell’Infinito e dell’Eterno ha fatto l’unico oggetto del proprio desiderio, vacilla nel buio e nell’incertezza nel tentativo di conciliare l’umano col divino, di interscambiare, come dice Fallacara, la fisica con la metafisica.
Questa è in fondo la componente peculiare dell’uomo del ‘900 ed il Dell’Era colla sua opera ce ne offre una palpitante testimonianza vissuta personalmente.
L’eremo diventa un topos ideale presente in tutto il tessuto narrativo del romanzo.
L’autore, infatti, allorquando aveva percorso alcune tappe del suo viaggio, si chiede: “Li ho vissuto vero quei momenti?” Forse potrebbe dubitare di tutto, anche di aver viaggiato, ma poi soggiunge: “Ma no: l’Eremo l’ho qui, e il frate: ma ho parlato con lui, sono stato nella grotta, o il desiderio di parlarci, di esserci, mi ha fatto vivere quelle ore?………………………..” (pagg. 161-162).
E’ da rilevare che anche negli stilemi della scrittura si palesa tutta la trepidazione dell’anima dell’autore. Al dubbio, però, subentra una sola certezza: “ma no, l’eremo l’ho qui”. L’interectio “ma no” sembra sottolineare un forte richiamo dell’anima ad una certezza, che non deve essere delusa e che ormai fa parte integrante della vita interiore dell’autore; inoltre l’espressione “l’eremo l’ho qui” e l’uso del prolettico rendono ancora più impellente nell’autore questa esigenza insopprimibile del suo spirito.
Al “ma” precedente in forma anaforica ed in senso avversativo segue, però, un altro “ma” che pone un ulteriore dubbio nell’anima e nella mente dell’autore. “ Ma ho parlato con lui, sono stato nella grotta, o il desiderio di parlargli, di esserci, mi ha fatto vivere quelle ore?………………….”.(pag.162).
Riteniamo che la parola-chiave di quest’ultima frase sia “desiderio”.
Ci accorgiamo, infatti, che sussiste tramite la parola-chiave “desiderio” un’isotopia tra questo locus e quello già precedentemente menzionato e riferito al frate dell’Eremo. “Capivo come avesse potuto parlare ad un fraticello ovvero che un fraticello credesse di lui le voci dei rami o del suo desiderio”. (pag.27).
Il frate, tuttavia, può credere di ascoltare la voce degli alberi, in cui si rivela la parola di Dio, perché è proprio la fede che si appaga del suo desiderio.
Il Dell’Era è, invece, ancora lontano dalla fede, anche se la ricerca ed il suo desiderio nasce dalla condizione che l’etimo stesso della parola semantizza ( de sideribus- lontano dalle stelle.). Eppure il nostro tende alla stelle, anzi per ripetere le sue stesse parole e già precedentemente citate è condotto dai “folletti pensieri” a “caccia di stelle”.
La ricerca di Dio è per il Dell’Era “in interiore hominis”, un Dio della sofferenza, “fratello” dell’uomo in pena, come veniva invocato dagli uomini del tempo travagliati da un’angoscia esistenziale.
Compito primario del letterato era, allora, quello di interpretare questo diffuso stato d’animo, di farlo rivivere nella pagina cercando colla parola di tentare di colmare l’abisso tra l’umano ed il divino.
L’impegno del letterato del tempo è, quindi, di natura prevalentemente etica e si profonde in un rinnovamento totale delle forme di cultura e di pensiero anche nell’ambito religioso.
A questo compito è vocato senz’altro il nostro, che, come vedremo innanzi, nelle sue pagine non soltanto ci illumina sulla complessa condizione storico-spirituale vissuta dall’uomo del tempo, ma ci testimonia con il suo stesso “exemplum vitae” che diventa pagina scritta , la soluzione di quel problema tanto prediletto da C. Bo e cioè dell’inscindibilità del rapporto letteratura-vita[1].
La letteratura viene definita da Bo “ una condizione, non una professione ed aggiunge in seguito: “La nostra letteratura sale dalle regioni centrali dell’uomo, ha troppa memoria per risolversi in una passione che risolva i nostri umori, le nostre stagioni di poveri viventi. Diventa una conseguenza naturale di speculazione: è un discorso infinito e continuo che poniamo con noi stessi…… L’identità che proclamiamo è il bisogno d’integrità dell’uomo, che va difesa senza riguardi, senza nessuna concessione …….Allo spettacolo di abbandono (e nel “no” c’è tutto il carico di responsabilità, di dolori, di tristezze che rappresentano l’attesa dei nostri giorni) viene opposta una disciplina di vita: una condizione senza vacanze di inseguimento assoluto.
Di fronte a un’identità esaurita per soddisfazione sentiamo un’esigenza ed un’ansia: ci scopriamo nella coscienza di uomini, e più in ragione di spiritualità: un’analisi infinita di suggerimenti metafisici.”
I presupposti teorici proposti dal Bo enucleano perfettamente “ante tempus” le tematiche della narrativa del Dell’Era. La sua, in effetti, non si presenta come “professione”di narratore, ma come assoluta condizione di vita. Questo ce lo ricorda il narratore non solo nell’incipit dell’opera, ma in tutta quanta la prossonomia narrativa, come avremo modo di esaminare innanzi. L’autore, inoltre, non intende risolvere i drammi, che travagliano l’uomo, ma piuttosto comprenderli, condividerli.
La sua coscienza di uomo è sempre presente e nella diegesi narrativa e nella tensione verso un tempo assoluto e metafisico, che si confronta sempre, però, con il reale fenomenico e con l’esperienza umana del suo vissuto.
E’ chiaro quindi che anche il sentimento religioso nel nostro si connota con tutti i colori dell’umano, ma tuttavia sempre fortemente sentito come profonda condizione di vita.
Per questo alla staticità dei monumenti contrappone la fervida vitalità del flusso della sua coscienza, che si fa vita.
Comprenderemo, allora, la delusione dell’autore quando visita il Santuario di S.Rita “……il santuario biancheggiava ………….mi rizzarono i capelli…..tutto era una schizofrenia cromatica……..bovina fissità di santi.” (pag.160).
Siamo ben lontani dalla figurazione dell’Eremo. Qui la fissità delle immagini, la connotazione di “un dio lattiginoso”, per contrasto farà insorgere nello scrittore la vocazione a sentire un palpito vero di religione, che proverà, quando, avendo maturato il suo viaggio interiore, a Palazzo Pitti potrà esclamare : “Con Leonardo Michelangelo, Raffaello, guardo il mio Cristo.
Natura che non si imbelletta di ori o accuccia in pallido sfondo . Tronchi spogli, crinali rasposi: congiura di giganti che non chiedono vittoria ma lotta ed una maschia tristezza sui volti che intorno al suo si raccolgono, pensoso di tutti i dubbi, risoluto di tutt’i propositi.” (pag.250).
Come è diverso questo paesaggio dal precedente rarefatto in “una schizofrenia cromatica”. Ed è proprio il paesaggio con “tronchi spogli, crinali rasposi” che fa rivivere l’immagine del “suo dio”, “pensoso di tutti i dubbi”, tra giganti, che, segnati nel volto da “maschia tristezza” non chiedono vittoria, ma lottano. E’ qui la grandezza di un grande scrittore: saper dipingere con efficacia sensazioni e sentimenti dell’animo con una cifra linguistica assoluta che rimanda altresì non solo al reale, ma all’ideologia del reale. Il ductus pittorico-linguistico e poetico dello scrittore ci fa comprendere assai meglio di qualunque digressione filosofica la sua concezione del divino, in quanto, proprio attraverso la movenza lirica del linguaggio, ci comunica non solo la sua idea, ma la sua condizione esistenziale connessa alla sua commozione profonda.
E’ evidente che nel Dell’Era convergono, altresì, le istanze fondamentali della problematica religiosa del tempo.
Di Silone riprende, rivisitandolo in maniera, però, del tutto personale, il sentimento dell’evangelismo laico. Come Silone, infatti, anche il nostro ritiene che il cristianesimo deve essere ridotto a sostanza morale, che si concretizza nel sentimento di solidarietà e fraternità. Il Dell’Era, inoltre, fa sue le affermazioni di Silone[2]: “la certezza che l’uomo ha un assoluto bisogno di apertura alla realtà degli altri…… la certezza della comunicatività delle anime”.
Vedremo innanzi come il nostro è sempre pronto a comunicare cogli altri e come anela a dialogare con la sua anima per aprirsi all’animo altrui in una simpatia umana, che non è compassione, ma volontà assoluta di partecipare da uomo ad uomo dei travagli che affliggono l’umanità.
Un altro punto che accomuna il nostro a Silone è il Cristo simbolo dell’umanità sofferente ed offesa.
Vicino alla sensibilità cristiana del nostro autore ci appare anche Pier Paolo Pasolini, che richiamandosi alla religione cristiana, la ritrova nelle buie viscere di un mondo di uomini, che vivono una vita sociale fatta di ingenue speranze e che anelano alla venuta del “vero Cristo operaio”. Anche in Pasolini come in Silone e Dell’Era, la religione viene intesa come riscatto sociale. Ma è il Pasolini de “L’Usignolo della Chiesa cattolica” quello che ci sembra assai più vicino alla spiritualità del Dell’Era. Nella silloge, infatti, alla maniera del nostro il Cristo è “ il Cristo della pace”, “il fratello ferito”. “Cristo della pace/ del tuo supplizio/ nuda rugiada/ era il Tuo sangue./ Sereno poeta/ fratello ferito, / Tu ci vedevi/ coi nostri corpi/ splendidi in nidi / di eternità .(canto III).[3]
E’ evidente che Pasolini e Dell’ Era percorrono itinerari esistenziali e culturali del tutto diversi, ma come sempre capita per le grandi anime poetiche, esiste un incontro.
Infatti, come per Dell’Era, il Cristo di Pasolini è il Cristo sofferente “fratello ferito” che si rivolge agli umili e che viene evocato da una natura primigenia. E se per Pasolini è la “nuda rugiada” che simboleggia nel supplizio il Cristo della pace ed il suo sangue, per il nostro il Cristo vive “nella penombra pietrosa”, si fa sentire nella “nicchia d’azzurro”, che la fede del frate si era costruita oppure fluttua dal mare “colla testa algosa” ovvero si manifesta con le voci degli alberi. In fondo sia Pasolini che Dell’Era, nel ritrovare il Cristo nelle viscere della terra ed in una natura pura, elevano un canto ad una forma di religione del tutto laica, che vive nel profondo degli uomini e del creato, ancora incontaminato e contemplato come “un paese innocente”.
Più consono, però, alla spiritualità del Dell’Era ci sembra il pensiero di O.Rosai [4]: “In un albero, in un mendicante, in un povero “omino” insomma c’è indubbiamente un maggior contenuto, una più gran somma di mondo, di Dio, di questa vita, della tragedia di povere creature”.
E non è forse nell’eremo che il nostro cerca di “rubare al silenzio” le voci che Francesco aveva ascoltato? E se Rosai parla dell’ “omino”, non è la figura del frate in preghiera che ritorna maggiormente all’anima e alla mente dell’autore?
E, rievocando il frate dell’Eremo, non dice a pag.174: “E il frate dell’eremo? La sapeva lunga lui, c’era una biblioteca nello sguardo che mi aveva imbambolato nel viale”.
Il Dell’Era, invero, sembra tradurre con linguaggio proprio l’enunciazione di Rosai in pagine che hanno tutto il sapore del vissuto e di una condizione spirituale unica ed irrepetibile.
Ma ci pare opportuno soffermarci ancora sul concetto del laicismo evangelico del Dell’Era adducendo ad esemplificazione altri “loci” del testo.
L’autore a pag. 66 ci raffigura una donnetta, in visita alla Chiesa di S.Rita, che tra “rissa di quercioli e di rovi” s’avanza “con un manto di pecora sulle spalle, fin che non avesse altro che il cielo avanti a sé: e nello scabro altare sacrificare davanti a un Dio stupito i suoi stessi figli”. La presentazione della donnetta tra “rissa di quercioli e rovi” ha senz’altro delle movenze liriche originate dal commosso sentimento dell’autore.
Potremmo anzi dire che proprio in questo brano si invera quella comunione di anime, di cui aveva parlato Silone.
Ed è appunto il forte sentimento di comunione con quell’anima sofferente e pia che fa sì che il nostro non la riprovi, anzi ce la presenta con tutti i tratti della compassione umana.
Ma il nostro, anche se mostra di apprezzare l’abbandono totale della donnetta, certo non può condividerne l’atteggiamento idolatrico.
Per questo il Dio, che ci raffigura in questa scena, è un Dio “stupito”, un Dio, vicino all’animo dell’autore, che non vuole il sacrificio umano, ma che invece celebra la vita.
Lo scrittore con una sintesi mirabile ha tratteggiato in chiave antropologica la distanza tra l’umano e il divino, distanza che non può essere colmata da un atteggiamento idolatrico, sia pure totalizzante.
Ad un tratto i piani del divino e dell’umano si sovrappongono. La donnetta sembra elevarsi alle sfere di un misticismo rituale-sacrificale, mentre il Dio stupito assume tutte le connotazioni del “figlio dell’uomo”.
Ed ancora il nostro autore riflette, quando osserva gli ex-voto offerti a S.Rita. e li definisce “brani di anime”.
La mutazione a livello semantico di ex-voto con l’espressione “brani di anime” è assai significativa in quanto ci fa comprendere più di ogni ragionamento filosofico o teologico, come la religione occasionalmente e soltanto ritualmente vissuta, non può che esplicitarsi in brandelli di fede, cui forse ancora una volta Dio volgerà lo sguardo stupito.
Il Dell’Era, da parte sua, si limita ad osservare con quella umana pietà, che gli è congeniale.
Non sembra il caso adesso di ricordare i punti di contatto del nostro con gli altri autori, di cui innanzi abbiamo parlato.
Le parole dell’autore sono di per sé eloquenti ed ogni nostro commento ci parrebbe superfluo.
Ma ancora una parola ci pare ci dovere spendere per comprendere, come proprio l’attenzione al dolore e alle sofferenze degli uomini è per il nostro peculiare e come questo implica un atteggiamento di “pietas” religiosa, in cui il dettato evangelico si relaziona al riscatto sociale e morale dei derelitti, nell’ottica proprio della concezione novecentesca di un perenne circolare dell’umano nel divino.
Ci pare emblematico, a tal punto, leggere quanto l’autore dice a pag.100, visitando a Bologna S. Maria della Vita : “Creta falsa il barbuto Nicodemo……creta inerte il Cristo. Ma il dolore di quelle donne è mio: quante ne ho visto contorcersi, l’una verso l’altra, quasi ad affermare con un urlo più alto, un nodo più livido delle vesti, il diritto ad una maggiore sofferenza: e i miei piccoli occhi a guardarle stupito, dubbioso che mai mi sarebbe concesso tanto dolore”.
Alla fittizia falsità della creta il nostro contrappone la lacerante verità di donne che gridano soltanto il diritto ad urlare per un dolore incommensurabile.
Leggendo questa drammatica sequenza non possiamo non ricordarci dell’ “urlo nero della madre/ che andava incontro al figlio…” (Quasimodo)[5].
La drammatica sinestesia “urlo nero” emblematizza tutto il dramma lacerante della guerra vissuto dalle donne ed il poeta si era chiesto: “E come potevamo noi cantare/ col piede straniero sul cuore/ nei primi due versi della lirica. Ma Quasimodo compone la lirica nel 1947, mentre il testo del Dell’Era è del 1969. Era trascorso poco più di un ventennio e la contingenza immediata delle conseguenze della guerra non era incombente, ma permaneva tuttavia nelle donne la storia di un dolore non sopito che chiede di vivere ancora nell’urlo e nello strazio.
Il nostro allora si mostra stupito e dubbioso che mai gli sarebbe stato concesso tanto dolore.
Ivi non solo troviamo la ricerca di comunicatività con le anime, ma anzi addirittura la volontà di condividere appieno tutto il potenziale di sofferenza di quelle creature afflitte. L’autore, alla maniera ungarettiana, vuol essere “uomo di pena” tra gli “uomini di pena” e desidera accogliere in sé tutto il dolore del mondo.
Non era questo forse il messaggio più alto che la cultura del novecento tramandava agli scrittori ed ai letterati più sensibili del tempo?
E la volontà di volere vivere fino in fondo e coralmente il dolore del proprio simile non era forse la condizione di un evangelismo, che se anche del tutto laico, era intuito
ed elaborato sin dalle radici come sostanza e verità di vita?
Ed il Dell’Era nel romanzo si presenta, altresì, come uomo totale nel vivere il quotidiano e nel suo incontro con gli altri, che ama definire “umanità”.
E’ quanto mai abile a descriverci i suoi personaggi. Ne delinea con brevi tratti le caratteristiche psicologiche, si intrattiene con loro nel suo peregrinare spesso avventuroso. Riesce soprattutto egli, che a pagg .81-82 si palesa un teorico della “storicità della risata”, a dare al racconto un carattere di autenticità ed un movimento agile con coloriture linguistiche e con sapido gusto descrittivo che allietano e coinvolgono il lettore.
Queste ultime nostre affermazioni sembrerebbero, a prima vista, in contrasto col personaggio Dell’Era che noi abbiamo fatto conoscere nella prima parte del nostro discorso.
E invece no, l’autore, che noi cominciamo a conoscere attraverso le sue pagine, si connota proprio per questo aspetto chiaroscurale del suo “io”. Uomo tra gli uomini, con tutto il gravame dei fastidi del quotidiano, alterna all’esigenza di rapportarsi sempre al reale fenomenico e al prossimo l’insopprimibile urgenza etico-sprituale di isolarsi nel recupero memoriale o di ripiegarsi in se stesso. “Sono un uomo”, esclama l’autore in una fase del romanzo e noi non vogliamo preterire da questa sua affermazione, che nella logica del romanzo diventa assionomica.
E’ vero che reale, quotidiano, spazio e tempo esterni nella raffigurazione delle cose o nella sequenza della galleria dei personaggi, spesso rimandano a più alte ipotesi di coscientizzazione del nostro ovvero di tensioni lirico-poetiche, ma non si può negare che tutto quanto lega il Dell’Era alla realtà effettuale della possibilità del suo esistere
nelle cose e colle cose, nella comune e quanto mai semplice vicenda di uomo tra uomini, costituisce per il nostro un presupposto irrinunciabile per la sua stessa vita, che diventa, altresì, linfa per raccontare e per raccontarsi.
Non volendo, pertanto, arrecare alcun torto al nostro autore nel paragrafo successivo volgeremo la nostra attenzione alla “diegesi” del romanzo ed al quotidiano della vicenda narrata.
 
 II
 L’aspetto diegetico del romanzo
 .
Accompagniamo, adesso, come ci eravamo promessi, il nostro autore nella quotidianità del suo viaggio.
Dopo avere trovato precaria ospitalità nell’albergo Oderisi il giorno successivo si reca in “una stazioncina smaltata” e riesce a prendere la corriera.
Il primo incontro è con un gruppo di ragazze: una di queste arringava la folla dicendo: “A che serve il latino ?” (pag.43). Ma quale era la “quaestio”?: quale doveva essere l’esatta traduzione di “sarebbe stato lungo a dirsi”. Tutte rispondono sbagliando “Longum esset”. Il nostro le rassicura dicendo che avevano imbroccato la traduzione e alla ragazza, che dice di aver tradotto “longum sit,” risponde che si potrebbe trattare di un errore rosso.
Il Dell’Era, esperto umanista, certo che non vi era nessuno che potesse sbugiardarlo,
con questa sua menzogna ci vuol far comprendere il rapporto di viva simpatia nei confronti dell’umanità. Aveva sacrificato al rigore della grammatica la fresca gioiosità di quelle ragazze.
In un’altra circostanza, seduto in una panchina, il nostro osserva una moltitudine di gente composta da bimbi, coppie, mamme e vecchi.
Ne trae lo spunto per suddividere il genere umano in vari stadi con conseguente correlazione ai loro bisogni, spesso non considerati dagli altri, chiusi nel loro egoismo.
E’ un affresco vivo quello, che ci fa il Dell’Era, in quanto non è soltanto denotativo di una certa società, ma indulge a riflettere più ampiamente sulla condizione umana.
Ma un incontro senz’ altro significativo è quello che l’autore fa con un muratore, che “conficca trentadue zanne in un immane panino”.(pag. 74)
Il muratore viene rappresentato come l’emblema della genuina sanità rurale, aperto e generoso e lieto di offrire un buon vino al nostro, che mostra di gradirlo oltre misura.
Parla con schietta gioia della moglie e con orgoglio del figlio di ventun settimane, già grande e grosso, che si chiama Giuseppone.
Alla figura tanto vitale del muratore l’autore contrappone quella stereotipata di mamme, che chiamano con nomi sofisticati i loro bambini, belli, sì, “ma palliducci o scarlatti di sciroppi.” (pag.75)
E’ evidente che in questo brano l’autore, seguendo una tradizione letteraria che va da Pavese a Vittorini, a Pratolini, a Silone, a Pasolini, autori che indubbiamente gli sono presenti, predilige il sano e sincero mondo del proletariato a quello esangue e fittizio della borghesia.
Icastica è, infatti, la considerazione, che in conclusione fa l’autore, riferendosi ai figli della società borghese: “Fosse qui Giuseppone li stenderebbe con un dito”.
Tra la galleria dei personaggi c’è anche un mendicante cieco, un po’ birbone, col quale il nostro autore riesce ad instaurare un dialogo aperto e per molti aspetti divertente. Avendo saputo che “ amava palpare” le ragazze, se lo fa confessare dal medesimo, che peraltro afferma che vuol godere la sua libertà, non chiudersi in ospizio e fruire delle elemosine laute nelle cattedrali, dove si recano i signori che “ci tengono a fare bella figura”.(pag. 89)
Anche l’incontro con il mendico, che appare come episodio isolato nel racconto, assume un suo significato. Da una parte si esprime la volontà del cieco di vivere, pur nelle costrizioni impostegli dalla natura, una libertà di vita tutta propria e dall’altra la considerazione di una società borghese che si mostra generosa nell’elargire l’elemosina: una società, pertanto, più protesa all’apparire che all’essere.
Il tutto viene condito dal sorriso bonario e dalla simpatia del nostro autore, che offre una consistente mancia al suo interlocutore per l’intervista rilasciata.
Ad un certo punto del suo viaggio lo scrittore decide di recarsi in un cinema. Quella sera desiderava, invero, “che il corpo” fosse “disposto a collaborare con lo spirito,” “che lo spirito” si potesse proiettare “nelle migliori condizioni sullo schermo”. (pag.95). Ma in effetti la vicenda narrata dal film non gli interessa, nella sua mente affiorano i ricordi familiari (motivo ricorrente in tutto il contesto narrativo).
.Uscito dal cinema, però, quasi la provvidenza volesse risarcirlo del costo del biglietto, assiste alle sequenze di una scena che si svolge per istrada e che ha tutte le caratteristiche di una sequenza filmica. Due conducenti litigano tra loro interpretando, ognuno secondo il proprio utile, le norme del codice stradale.
Apprezziamo la perizia del narratore nel descrivere la scena, ma subito ci sorge spontanea una riflessione.
La descrizione della scena non ci appare casuale. In effetti ci sembra che proprio con questa sequenza narrativa l’autore voglia spiegarci che la tecnica narratologica, usata in molte parti del suo testo, è propriamente quella cinematografica.
Siamo al tempo in cui linguaggio cinematografico e linguaggio narrativo si mutuavano a vicenda.
Il Dell’Era, a nostro avviso, ne fa un sapiente uso in quanto tutte le rappresentazioni dei personaggi e parte dei paesaggi nel romanzo si snodano in dissolvenze con caratteri cromatico-fonici e con sequenzialità temporale-spaziali propri della filmografia. Il che conferisce al discorso narrativo simultaneità ed immediatezza.
In altri termini, come Pasolini diceva che usava la cinepresa come scrittura, analogamente il Dell’Era impiega la penna, nel cogliere l’immediatezza di situazioni e di condizioni rappresentate, che alla mente del lettore s’imprimono rapide proprio come in un “lettura” filmica.
Altri incontri attendono il nostro autore, mentre tante avventure ed inceppi imprevisti proprio del vivere quotidiano lo assillano, per istrada, dove talora è attratto anche dal cromatismo di vetrine, od in treno, che definisce a pag.113 :“carico d’umanità”.
La parola “umanità” diventa invero parola-chiave di tutto il discorso delleriano. E’ un aspetto circolare di tutto quanto l’itinerario narrativo-esistenziale dell’autore. Non a caso il termine ritornerà con pregnante semantica affettiva nell’explicit del romanzo allorché, ricordando i colleghi di lavoro, dice: “Nostalgia per i colleghi: sì per loro: s’invecchia insieme………Nostalgia e riconoscenza per essersi offerti cavie inconsapevoli ai miei esperimenti. In quale laboratorio avrei avuto un tale campionario di umanità?” (pag. 248)
E che non è forse il grande senso di umanità, che spinge l’autore, quando tra le altre legge la notizia che una ragazza ammalata di leucemia, figlia di povera gente, ha bisogno di sangue, a donarle il suo ?.
L’autore, nel raccontare il fatto dice che, dopo aver letto la notizia, era incerto se recarsi al teatro ovvero in ospedale e che pertanto la sua visita nel luogo di sofferenza sarebbe stata più accidentale che voluta.
Noi ci permettiamo di non credergli e perdoniamo la bugia che ci vuole raccontare.
In effetti il Dell’Era sembra avere pudore dei suoi più intimi sentimenti, rifiuta per essi il compiacimento altrui. Ne è prova il fatto che all’infermiere, che chiede il suo nome, risponde inventandoselo.
Il Dell’Era, invece, noi riteniamo, aveva maturato forse la sua decisione, che ci pare implicitamente espressa in un monologo interiore che s’inserisce all’interno della vicenda a pag.134 : “Mi piace sentirmi: dare una voce ai miei pensieri, proiettarli in una sorta di dialogo, costringerli a dichiararsi ed assumersi le proprie responsabilità: il suono li smaschera, se infidi; li nobilita, se onesti, si fa dolce ed aspro con essi: e forse neppure questo:il semplice gusto di sentirmi, accompagnarmi…..Quante storie! Fatti miei!”.
Questo monologo è connotativo della sensibilità dell’autore, della sua capacità di autocritica, ma soprattutto della volontà di vivere in comunione con i suoi pensieri da solo e con se stesso. Lo comprava l’esclamazione finale: “Fatti miei”!
Ed un fatto tutto suo interiore è stato senz’altro la volontà di accorrere all’ospedale, come del tutto sua è la considerazione riferita alla ragazza sconosciuta: “Guarirà e potrà vivere la sua vita, avere figli e saranno robusti e robusti i figli dei figli”. (pag.157 ). E’ questa soltanto una pagina del romanzo ovvero una grande lezione di umanità che il Dell’Era ci propone ?
Il nostro continua il suo viaggio; al ricordo della famiglia coniuga la necessità di far quadrare il bilancio familiare ed ancora una volta si imbatte in personaggi, che raffigurano tipologie diversificate della nostra società.
E’ il caso quando il nostro si trova di fronte due personaggi completamente antitetici tra loro in treno: un contadinotto , che nella sua rudezza portava i segni di una natura primordiale, ma genuina ed autentica ed un borghese del tutto fittizio nel modo di porsi e nel modo di interloquire.
L’autore, sempre con la connaturata perizia descrittiva e con incisività di linguaggio, ancora una volta ci presenta delle dissolvenze di rara efficacia.
Il contadinotto viene così rappresentato (pag.197): “scarponi e mani callose …..cullato dal torpore, alle soglie della coscienza: la sua faccia originale…….o non dormiva, e si raccoglieva nei suoi pensieri:quali? Pensieri di terra e sudore……………….”
Ancora una volta l’intonazione antropologico-sociale, insita nella narrazione delleriana, ha creato una pagina di alto contenuto lirico, mossa dal profondo sentimento di solidarietà dell’autore. Con una sintesi poetica del tutto originale, “pensieri di terra e sudore”, inoltre, viene stigmatizzata una realtà umana tanto sofferta quanto radicata nel tessuto sociale.
Al contadinodotto si contrappone la figura del borghese “occhio vivido dietro gliocchiali, neppure una goccia di sudore dal colletto geometricamente serrato…..”..(pag.198)
Basta la descrizione del Dell’Era per farci comprendere la contrapposizione dei due mondi completamente opposti e per farci riflettere sui problemi della giustizia sociale e del riscatto umano, temi, peraltro, che abbiamo visto urgevano sempre nella mente del nostro, anche quando i luoghi lo invitavano alla contemplazione religiosa.
Ecco perché precedentemente abbiamo affermato che il Dell’Era, uomo che vive la sua quotidianità, non è altro da colui che si pone di fronte ai problemi, che sembrerebbero farlo trascendere dal reale. Caratteristica fondamentale del nostro, infatti, saper guardare “al di fuori” senza mai dimenticare il reale proprio dell’uomo in quanto uomo.
Anche per questo il Dell’Era si inserisce in un contesto letterario, che fa proprie le istanze del proletariato contro la società borghese, espressione di una “falsa coscienza” e di una “non cultura”.
Ci spieghiamo, allora, perché il borghese, che non esita a denominare “faraone” gli riesce antipatico.
Il suo linguaggio è fittizio e privo di autenticità di contenuti e quando chiede il parere su quali libri leggere, alla segnalazione dell’autore, che indica “I Fioretti”di S.Francesco e “I viaggi di Gulliver”, non può che rispondere con la sua insulsa ottusità: “Un libro da preti e uno da ragazzi……………… Mi faccia il piacere………”.(pag.199).
Con questa frase si dissolve il “faraone” dalla sequenza narrativa. Ma a noi rimane di fare le nostre considerazioni. Innanzi tutto vediamo incolmabile la distanza dal nostro al “farone”, anzi direi che i due si trovano in contrapposizione.
I suggerimenti dati dal Dell’Era nascono dal suo vissuto: da una parte l’eremo, che, come abbiamo precedentemente visto, si era interiorizzato nel suo “io”, dall’altra l’esigenza di librarsi con Gulliver dal reale all’ immaginario, come spesso lo stesso scrittore ci ricorda all’interno del romanzo e persino nell’ explicit, dove dice :“la fantasia ha le sbarre segate”.
Quella del Dell’Era, in effetti, è la vera cultura, che si fa vita e che colla vita si integra; la “non cultura” del “farone” rappresenta, invece, la cristallizzazione di ogni forma di vita e la non autenticità del pensiero.
Ci accorgiamo che la descrittività pura e semplice di eventi o personaggi trattati dal Dell’Era rimanda alla complessità ideologico-culturale, di cui è materiata la società al nostro coeva e dal medesimo tanto accuratamente rappresentata.
In effetti il testo delleriano s’inserisce in tutta la vasta problematica degli autori del tempo e ne rivisita le fondamentali tematiche, in sincronia colle postulazioni delle teorie letterarie del tempo. L’autore, inoltre, configura una dimensione temporale, che si fa esperienza vissuta come flusso di coscienza implicante un rapporto esistenziale che relaziona l’ “io” al mondo rappresentato.
Ci pare opportuno, a questo punto, soffermarci ancora un momento ad analizzare gli aspetti contrastanti enunciati nell’episodio immediatamente prima esposto.
Abbiamo assistito alla scomparsa del “faraone”, ma nella nostra mente rimane impressa la vacuità del personaggio e delle sue parole.
Il che ci induce a meditare ed approfondire l’assiologia argomentativa che sottende la pagina scritta dal Dell’Era.
Innanzi tutto l’indicazione dei due testi tanto distanti tra di loro, quali “ I Fioretti” di San Francesco e “I Viaggi di Gulliver” di J.Swift., oltre alle ragioni precedentemente indicate, interessano un discorso di tipo concettuale assai complesso.
E se “I Fioretti” di S. Francesco ci trasferiscono in quel mondo irenico, dove nella fede desiderio di Assoluto e contemplazione diventano autentica condizione di vita dello spirito, “I viaggi di Gulliver”, quasi in forma antinomica, rappresentano il processo di autodistruzione della ragione e dell’imbarbarimento umano e civile.
Il testo di Swift, infatti, non va letto come “un libro da ragazzi”, così come ci aveva insegnato una becera cultura borghese, di cui il “faraone” è l’inconsapevole portavoce, ma deve essere compreso in un’ottica critica più ampia.
Il fantastico, invero, che domina la vicenda gulliveriana, è uno sfogo dell’autore, che cela il suo pathos nel farci rivivere con pessimismo totalitario il dolore di una mentalità riformista delusa.
Il nodo, però, che lega Dell’Era e gli autori più rappresentativi al medesimo coevi, è senz’altro la concezione di una razionalità, dominata dall’attivismo delle idee del progresso e del civismo, nata per l’uomo e che in un secondo momento allo stesso si oppone.
Gli uomini del tempo di Swift, infatti, predicavano la ragione ed agivano peggio di bruti animali. Ogni apparente valore della società si rivelava una prova di barbarie.
Ma perché questa digressione su Swift? Se dovesse rimanere fine a se stessa, sarebbe un superfluo riempitivo non conferente al nostro discorso.
Ed invece no, ci accorgiamo che Swift, e questo senz’altro è presente nel convincimento del Dell’Era, aveva anticipato delle concezioni che nella cultura del ‘900 europeo ed italiano, in particolare, sarebbero state macroscopiche.
Infatti, oltre due secoli dopo la comparsa del testo dello Swift, assistiamo alla dicotomia del principio di natura e ragione, in antitesi con l’autenticità del postulato
filosofico illuministico e conseguentemente all’insorgere di una borghesia che non può avere nessun dialogo con il proletariato, che si presenta, come possiamo anche desumere dalla scrittura delleriana, come natura pura con tutto il suo potenziale di disperazione e di dolore e che ancora deve irrompere nella storia.
Pur in una diacronia ben definita e necessariamente con specifiche mutazioni ideologiche e storico-sociali possiamo invenire un’interterstualità concettuale, naturalmente di tipo esterna tra Swift ed il pensiero degli esponenti più ragguardevoli della cultura del novecento, cui appartiene lo stesso Dell’Era.
Il punto di contatto consiste nel fatto che, come Swift, gli autori del‘900, sentono la necessità di rompere gli schemi razionalistici, che a cominciare dall’età illuministica, avevano consacrato il ruolo dell’intellettuale alla società borghese ed avvertono l’impellenza di ridefinire la propria collocazione nel campo dell’attività umana.
La metafora di Swift sottesa in un apparente realismo del linguaggio, serve a consentire una forma di condanna dei vizi dell’umanità ed enuclea, altresì, il contrasto tra i principi fondanti della “ragione” e la sua realizzazione nel campo civile e nella precipua sfera umana.
Da qui l’insorgere di una falsa coscienza e di una società borghese a cui il Dell’Era, in sintonia con tutte le innovazioni ideologiche del‘900, si oppone.
Ci siamo accorti, pertanto, che il discorso su “I Viaggi di Gulliver” costituisce un nucleo ideativo all’interno della struttura compositivo-narrativa del Dell’Era.
Ma adesso perché il nostro discorso non viva di per sé “in abstracto” ci pare corretto per un discernimento critico più oculato, sempre nell’ottica dell’assunto dello Swift, cui ricorriamo, però, solo come ad un “archetipo”, esaminare quel conflitto di passione ed ideologia, per dirla con Pasolini, ovvero di ragione e sentimento, traducibili in sovrastruttura politico- culturale e condizione autentica del vivere, che anima il dibattito culturale del ‘900.
Dibattito, che nasce “in primis” sì dalla coscienza della “ crisi della ragione” e dall’insorgere della “facies” fittizia della borghesia, ma che comporta movenze spirituali e culturali ed itinerari esistenziali, che tendono a sovvertire, innovandolo completamente il ruolo dell’intellettuale.
In contrapposizione al dominio di una “ragione” che aveva asservito alla borghesia, i letterati del tempo, tra cui Dell’Era, sentono l’esigenza ideologica di conoscere il mondo e con una forza innovatrice di condursi anzitutto sul piano etico-spirituale
. La vera cultura è quella dello spirito e ce lo dice chiaramente il nostro, quando riferendosi al frate dell’eremo, afferma che aveva visto un’intera biblioteca nei suoi occhi.
L’intellettuale, insomma, giusta la teorizzazione del Pasolini[6], “ sembra volersi trovare col sentimento al punto in cui il mondo si rinnova”.
Principio, questo, che le pagine delleriane ampiamente testimoniano.
In fondo bisognava allontanarsi da una storia storicisticamente ed umanisticamente concepita ancora con gli schemi del razionalismo settecentesco e volgere lo sguardo al dolore individuale.
Si pensi a tal proposito al lacerante dolore, che l’autore sente come suo, delle donne,
di cui abbiamo innanzi parlato ovvero alle sofferenze del proletariato per la lotta della sopravvivenza descritte quasi come forme della stessa essenzialità primigenia della natura.
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III
 La “coscienza dello scrittore” e “il dibattito culturale” del tempo.
La scrittura del Dell’Era, si connota, a buon diritto, non come una letteratura della “conoscenza” (residuo del razionalismo settecentesco ), ma della “coscienza”.
Il dualismo natura-ragione, passione ed ideologia, fortemente sentito dal nostro, lo rende interprete sensibile delle precipue istanze della letteratura coeva che avevano avuto larga diffusione con la pubblicazione delle riviste “Officina” e “Menabò”. i Queste nostre considerazioni ci spingono a riflettere come il testo dello Swift, che pure rimane un modello per il nostro e che per questo lo cita, contrapponendolo al messaggio francescano, non può che considerarsi se non come elemento prodromico
alla più vasta e variegata polisemia culturale espressa dalla letteratura novecentesca.
Del tutto innovativa e singolare, infatti, è invero, la posizione dell’intellettuale a metà del ‘900.
E, mentre gli autori degli anni sessanta del nostro novecento maturano la concezione di un’immane mutazione antropologica, che non offre possibilità di speranze nella storia, nella politica, nell’ideologia, Swift si limita a denunciare la “barbarie” del suo tempo.
L’intellettuale del tempo, cui appartiene il Dell’Era, intende evadere sì dalla realtà sovrastrutturale, ma l’alternativa che gli rimane è quella di far coincidere la propria ispirazione con un’autentica condizione di vita, che nella scrittura si palesa con la materialità delle cose, con l’ individualità dei personaggi.
Capiremo, allora, quale valenza assume il “torpore” del contadinotto ed il suo essere nelle“cose” con “pensieri di terra e sudore”.
Il che, in altri termini, vuol significare, come avviene nel Dell’Era, appropriare la scrittura della visione delle origini dell’esistenza umana.
L’autore coglie la ragione primigenia della vita, ne indaga la visceralità profonda; la sua condizione di uomo, che si identifica con quella dello scrittore, vive con i personaggi del proletariato, delineando con l’elementarietà della loro esistenza i primordiali bisogni.
Invero questo è un paradigma che accomuna autori anche tra loro lontani, e con Dell’Era Pasolini, Sanguineti, Calvino e lo stesso Sciascia, in particolare autore di Candido, opera colla quale lo scrittore, attraverso la critica al razionalismo settecentesco, puntualizza il ruolo dell’intellettuale nella società.
E a proposito del ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea e del dissidio profondamente vissuto dobbiamo ancora una volta citare Pasolini, che, come vedremo innanzi, è accomunato al nostro da un vibrante spirito evangelico di stampo laico.
Ma in questa sede è d’uopo interessarci del Pasolini, “teorico della letteratura” ed assai vicino nei suoi dettami alla visione delleriana.
Il Pasolini in “Passione ed Ideologia”[7] aveva precisato: “Prima passione e poi ideologia”. Il suo assunto gli veniva suggerito senz’altro, come nel caso del Dell’Era,
dalla visione sconsolata del mondo, di cui sente la lacerazione storica, il “non senso delle cose” ed in altri termini la dissoluzione di una ragione, che possa vivere come logica dell’uomo nell’esistente. Dal “non senso” delle cose e della storia deriva una condizione spirituale e un’amara meditazione sull’azione di devastazione e di fallimento cosmico della guerra sentita per alcuni versi in forma analoga dal Dell’Era, come potremo comprendere dalla lettura di una pagina del romanzo, che sarà oggetto della nostra attenzione.
“Tra due mondi la tregua in cui non siamo / vivo nel non volere/ nel tramontato dopoguerra, ”[8] dice il poeta.
Ed è forse per questo profonda angoscia esistenziale che l’autore opina “per parlare le cose, bisogna ricorrere ad un’operazione: infatti le “cose” che vivono immerse sia proletari nelle cose intese come lavoro, lotta per la vita, sia borghesi, nelle cose intese come totalità e compattezza di un livello culturale, si trovano dietro lo scrittore ideologo.”.[9]
Non poteva il Dell’Era non aver presente questa concezione pasoliniana, quando a pag. 172 e sgg del suo romanzo, nell’osservare quelle nella piccola chiesa, quasi “un’acquasantiera” quelle panche che avrebbero potuto ospitare trecento fedeli, ma, che, a detta del parroco, restavano vuote perché la gente era costretta ad emigrare.
L’autore a tal punto medita: “agli eserciti infedeli trecento parrocchiani più miseri che peccatori: strana lotta in cui una vittoria poteva dipendere dalla pioggia o dalla nascita di un figlio maschio: una sconfitta da una grandine o da una delusione: strana lotta con nemici di cui sai tutto e per le cui pene soffri come essi per le tue”.
In effetti sono le cose (le panche vuote) che muovono il pensiero ed il sentimento dell’autore verso un’operazione “regressiva”, che, per ripetere le parole stesse di Pasolini, “ è lotta per la sopravvivenza” da rapportare alle irrinunciabili esigenze della vita che si mutuano con i primordiali elementi della natura..
In contrapposizione al mondo del proletariato c’è anche il mondo della borghesia e sono sempre le “cose” a connotare l’incolmabile differenza tra i due mondi.
“Scarponi e mani callose” sono le caratteristiche del contadinotto, mentre “occhiali d’oro con stanghette………..colletto geometricamente serrato intorno al collo” non potevano che essere prerogative del “faraone”.
L’autore si immerge, quindi, nelle cose e diventa scrittore ideologo nel presentarci la borghesia “palus putredinis”, per dirla con Sanguineti, (Laborintus-1961), contrapponendola al popolo, l’unico capace di affrontare il sacrificio e la lotta e a cui va tutta la simpatia del nostro autore.
La coscienza del fallimento della ragione, che si identifica colla logica borghese, ingenera nel nostro la “plenitudo” della condizione dell’intellettuale del tempo, incline ad usare la penna nei confronti dei derelitti come “atto d’amore” nel momento stesso in cui si aliena dalla “fictio” del mondo borghese, che gli si manifesta ostile.
L’ ispirazione del Dell’Era nasce, come abbiamo visto, dalla crisi della società borghese e si muove inoltre nell’ambito di tematiche care tanto a Vittorini quanto a Pratolini.
Infatti così annota Vittorini[10] : “ Di che cosa trae i motivi per elaborare i suoi principi e i suoi valori? Dallo spettacolo di ciò che l’uomo soffre nella società. L’uomo ha sofferto nella società, l’uomo soffre”. Vittorini prosegue ammonendo lo scrittore a non proseguire con un’opera consolatoria, come era avvenuto per il passato, ma piuttosto a vivere nella scrittura la condizione dolorosa del popolo.
Ci sembra che il Dell’Era ha fatto suo il monito di Vittorini in quanto le sue pagine, come abbiamo potuto osservare, si connotano non come scrittura esterna, ma come presupposto esistenziale.
E soprattutto il discorso di Pratolini sembra trovare una felice risposta nell’opera del Dell’Era.
Così infatti si esprime Pratolini:[11] “La nostra vita esprime una passione che non sappiamo più darle; la nostra coscienza ha tutta l’ansia di una curiosità precoce.
Richiamare in tal modo una dimensione di motivi di vita e di scrittura significa ritrovare nel tempo la fiducia della propria esperienza”.
Che forse il nostro “ficcanaso” non ha voluto significare proprio questo con la sua scrittura?
Ha riproposto la sua esperienza per affermare poi : la vita “è mia e non mollo”.
Ha ripercorso col recupero memoriale il mondo delle sue esperienze, ce lo ha fatto vivere nelle sue pagine, ha affermato il valore della vita, e se pur conscio della sua finitudine, ha comunicato colla sua anima alle altre anime. Ma soprattutto ci ha tramandato un messaggio: vivere la vita nella sua autenticità e non nella falsità di un mondo rarefatto o borghese. Non solo, ma anche il guazzabuglio di sensazioni, che l’autore prova, lo sente soltanto suo ed irrinunciabile.
Ma senz’altro il momento più alto della creazione artistica dell’autore è quando interiorizza spazio e tempo nel flusso della sua coscienza.
Allora vibrano trepidi gli affetti familiari; le cose, i monumenti stessi rimandano ad una esistenzialità vissuta e la stessa natura sembra vivere dei moti dell’ animo dello scrittore.
Avviene il transito dalla diegesi alla mimesi e l’orizzonte della narrazione si eleva in un tono di alta liricità.
Di questa tematica connotativa dell’opera delleriana ci accingiamo ad occuparci nel prossimo paragrafo.
 
 IV
 “Dalla diegesi alla mimesi”
 In questo paragrafo intendiamo ripercorre soltanto alcuni momenti che ci sembrano più esemplificativi della mimesi poetica del nostro autore.
Il nostro ritorna nei luoghi dell’infanzia e rievoca con il dramma della guerra la morte del padre.
La tensione altamente drammatico-lirico ci viene anticipata, quando la notte prima lo scrittore dalla stanza dell’albergo, spalanca la finestra e che cosa prova?:“un brivido fra il brivido delle stelle”. Grandiosa illuminazione poetica, che come per i grandi poeti dell’ermetismo, riesce a cogliere in un attimo il pathos di chi analogicamente fa rivivere il suo stato d’animo nell’immensità del cosmo. La “duplicatio” della parola “brivido”, riferita a se stesso ed alle stelle, è di una rara bellezza e di una cifra poetica assoluta.
Il giorno successivo si reca nel negozio della vecchietta, che lo aveva conosciuto da fanciullo.
Dopo che la vecchietta lo ebbe riconosciuto si evocano i ricordi ed in particolare quello doloroso della morte del padre.
Ancora una volta una fulgurazione poetica domina la pagina. La morte del padre, che era avvenuta dopo l’armistizio, ispira al poeta uno squarcio lirico tanto drammatico quanto pregnante di simboli. “ Quanto sole quella mattina nella nostra miseria. Carri armati e cioccolata; e fra i mille il mio grido di esultanza: i miei non mi avevano insegnato il silenzio. Stracci e lacrime, pomeriggio di racconti, notte di sogni. La stanchezza del giorno dopo, il pallore di quello successivo………………”(pag.111)
Sì il tono è senz’altro lirico, ma tutto tremante di drammaticità alla maniera quasimodea.
Gli elementi figurali contrapposti sole-miseria-sogni-stanchezza del giorno ci fanno comprendere più di ogni trattato sull’argomento la delusione storica, lo strazio dell’animo del tempo, che vengono emblematizzati dal campo semantico “stracci e lacrime”.
Veramente rara la capacità di concentrazione lirica del nostro: concezione di una storia lacerata, fatta a brandelli a danno dell’umanità congiunta all’unica realtà concessa agli uomini: le lacrime.
Il “non senso della storia” evocato dal nostro ci fa ricordare Montale[12] “La storia non si snoda / come una catena di anelli ininterrotta./ In ogni caso molti anelli non tengono/ La storia non contiene il prima e dopo…………….Accorgersene non serve/
a farla più vera e più giusta.”
Ma quale poteva essere la naturale conclusione di questa vicenda tutta interiore per il nostro scrittore se non quella di voler star solo e di soffocare i singhiozzi?
Un altro ricordo che riconduce il nostro autore al tempio dell’infanzia è quello “della secchia che dondola” nella Ghirlandina.
Ad un tratto riaffiorano tutte le memorie infantili, i giochi di quel tempo, la vita scolastica.
E nel flusso della memoria parla al poeta la voce della natura in una forma di panismo lirico che ha del numinoso : “sente fluttuar il fiume:e al tonfo di un ciottolo, sussultare, spiare da quale gorgo affiori l’algosa testa del dio”. (pag. 113)
Altre volte i monumenti rinviano l’autore al suo vissuto letterario. E’ il caso quando visita la tomba di Dante e, da pari suo, altro non può fare che passeggiare ripetendo i canti del Paradiso.
Anche quando visita la casa dell’Ariosto la evoca con la propria memoria conoscitiva.
E la casa di Giulietta che cosa può suggerire al nostro se non l’evocazione di un tenero idillio giovanile?
Ma la nostra trattazione sarebbe inesaustiva, se nella categoria della “mimesi” all’interno del romanzo, non trattassimo del rapporto dell’autore con la natura, vero paesaggio della sua anima e diario della sua esistenza.
Proprio nel suo immedesimarsi con la natura il Dell’Era diviene alla maniera heideggeriana “pastore dell’essere”[13]. Il Dell’Era rinviene, in effetti, nella natura quella considerazione spazio-temporale, che implica altresì il suo impegno totale di uomo nell’esistenza. E proprio alla conclusione del suo viaggio interiore l’autore ritorna alla natura perché riconosce nella natura il termine del suo movimento ed intende purificarsi.
C’e quindi un viaggio reale ed uno all’interno della coscienza che rimanda all’innocenza primigenia della natura.
In questa dimensione possiamo leggere la splendida pagina nutrita di idilliche immagini poetiche e composta verso la fine del romanzo quando lo scrittore tendeva ad approdare ai più riposti lidi della sua coscienza.
“Visino di luna. Ha contati i suoi giorni di favola……..Dai, brilla quanto puoi. Non ha bisogno di esortazioni: srotola per la campagna e per le case: lucido gomitolo che s’impiglia sulla scogliera. Anche tu: ti rivedo finalmente, vecchio mare……. Ti ho sempre amato come me scapato e musone, generoso ed egoista bambino che non vuol diventare adulto……….”(pag.215)
In questo brano poetico, invero, il Dell’Era sembra pervenire ad un momento di purissima poesia in quanto il ritorno alla natura, come congettura N.Abbagnano[14] : “è il riconoscimento e la realizzazione della naturalità originaria e costituisce l’essenza dell’arte.”
E che dire della luna peregrina che “ha contati i suoi giorni di favola”, ma che l’autore invita ancora a brillare “col lucido gomitolo” che si impiglia nella scogliera? Un correlativo forse che vuole indicare gli ostacoli della vita? E la parola “gomitolo” che ci richiama il dipanarsi stesso della vita.
E l’apostrofe, inoltre, che il nostro fa al mare, prima chiamato “vecchio mio” e poi considerato “bambino che non vuol diventare adulto” forse non si identifica colla storia interiore di chi ora gli parla sì familiarmente?
Prima di concludere questo paragrafo ci pare, però, opportuno ricordare un altro evento, che incide profondamente nell’animo del nostro autore.
Si trova in treno quando scorge una signora “con un fagottino addormentato in braccio”. (pag. 195). Ad un tratto il Dell’Era comprende che il piccolo non parlava, ma che emetteva suoni inarticolati.
La profonda “pietas” che sente per il piccolo adesso si mescola col trepido ricordo del figlio Alfredo; rivive il timore che provava quando pensava che il figlioletto potesse essere tardivo nel parlare, la gioia immensa quando invece cominciò a profferire il primo “perciò” raziocinante e fare uso dello scilinguagnolo.
E’ una pagina intensa in cui, oltre allo smisurato amore di padre, l’autore rivela la sua attenzione per la “parola”, anzi per dirla con i suoi stessi termini per “la religione della parola”. Oltremodo significativa ci appare l’affermazione che il nostro fa a proposito.
“Se il cieco e lo storpio muovono a pietà, la parola li restituisce uomini”.(pag.196)
L’argomento ci pare di tale importanza che riteniamo opportuno spendere qualche parola in più nel prossimo paragrafo in considerazione del fatto anche che linguaggio e parola in tutta la diacronia narrativa del nostro sono coessenziali ai processi ideativo-creativi del romanzo.
  
V
 Il linguaggio e la “parola”
 Che linguaggio e parola fossero cardini, su cui ruota tutto l’asse narrativo del Dell’Era, ce ne eravamo accorti attraverso la lettura del romanzo.
La sua cifra stilistica è sempre precisa

Iniziamo con il delineare una delle pagine, che ci appaiono non solo tra le più belle e significative del romanzo, ma tra le più belle di tutta quanta la letteratura novecentesca.
e le variabili del suo linguaggio sono sempre riferibili a diversità di situazioni e di condizioni.
Sicchè ad una realtà pluridimensionale corrisponde una plurivocità di linguaggio in sintonia con i canoni dell’estetica contemporanea.
Ma ora facciamo parlare l’autore sull’argomento e noi tentiamo di trarre le conclusioni.
A pag. 50 e sgg, l’autore, dopo aver detto che detestava scrivere a macchina perché l’automatismo rende impossibile il libero fluire della penna, afferma che bisogna “vederla nascere la parola perché viva di se stessa”
Ma cosa vuol dire il nostro quando parla di una parola che viva di se stessa?
In effetti con concisa annotazione l’autore entra nel vivo del dibattuto discorso linguistico.
Il linguaggio per il Dell’Era è certamente apofantico e cioè costitutivo e rivelazione dell’Essere.
Così ci siamo abituati a leggere il Dell’Era, che riesce a presentarci personaggi, rivelare stati d’animo in forme di un puro atto linguistico.
Per lo scrittore, infatti, la parola ha vita propria proprio nel momento in cui la crea.
Essa è, pertanto, non solo “ergon”, ma energheia, come dice Humboldt, cioè costituisce e sottende l’Essere ed inoltre crea il pensiero.
Ma l’autore sa bene, altresì, che la lingua non soltanto abbraccia la totalità dello spirito, ma che si iscrive anche nel quadro dei segni della vita sociale.
Per questo riesce ad equilibrare linguaggio realistico ed assoluta parola poetica in virtù di quella sua espressa volontà di comunicare con gli altri.
Non è estranea, inoltre, al nostro la componente del psicolinguismo con cui estrinseca quei moti dell’animo che si sottraggono al rigore della ragione.
Il suo è un rifarsi alla lingua come universalità del discorso umano, giusta la tesi di Cassirer, o come ricerca dell’Essere, secondo la teoria di Heidegger.
Per questo linguaggio e parola per il Dell’Era assumono una sostanza ontologica e giustamente il medesimo parla di “religione della parola”.
Ma accanto a questo principio non possiamo tralasciarne un altro pure di rilevante importanza di ispirazione hejsmeliana.
Il linguaggio è anche un fatto individuale e la parola a volte germina come fatto spontaneo “e cunalibus” e quasi con connotazione materna.
Si tratta, in altri termini, di dare corpo al dialetto con cui il nostro essere si esprime nella forma più genuina.
Anche il dialetto, in tal senso, diventa costitutivo del pensiero e della psicologia del personaggio in un determinato momento.
Comprendiamo perfettamente, allora, il nostro, che a pag. 67, dichiara di sentire la necessità di profferire “ una robusta serqua di parolacce”.
E non è un caso che subito dopo rivendica di essere uomo del sud.
Che l’approccio con la lingua è di tipo materno è esemplato anche dal fatto che l’amico straniero, che aveva incontrato nel treno assieme alla sua compagna, ad un certo punto “parlava nella lingua natia che solo poteva richiamargli memorie, e richiamarle alla compagna”.
Lo stesso autore, a pag.224, già alla conclusione del suo viaggio, sente il richiamo dell’idioma natìo. “Sulle prime il patrio idioma cominciò i reciproci pensieri, poi intervenne il dialetto”.
“Dialettologia” e “parola” non sono antitetici nel Dell’Era, anzi compendiano la bipolarità del personaggio, uomo nel rapporto con il reale ed il quotidiano ed uomo che evoca l’accordo universo del mondo nell’assoluto della parola poetica.
 
 
 CONCLUSIONE
 
Nell’explicit del romanzo l’autore rivela di aver vinto la scommessa con il lettore.
Dapprima si pone delle domande: “Perché viaggiavo? Desiderio di evasione? Per conoscere me stesso” ?
Sono delle domande che riflettono tutto il suo iter umano e spirituale nella struttura narrativa del romanzo.
Ed è forse per questo che non intende dare una risposta precisa, ma piuttosto preferisce fare autoironia.
In un secondo momento, però, afferma la verità della sua vita e dell’esperienza vissuta.
“Felice quel guazzabuglio di sensazioni che mi fanno amare questa vitaccia che, mettila come vuoi è mia e non mollo: cicca tra miriadi di falò, ma cicca che io solo aspiro”.( pag. 251 ).
Ancora una volta l’autore ci regala un’immagine icastica che rimanda alla perspicuità di un’idea: la cicca (simbolo forse anche di limite e di finitudine) fra miriadi di falò è solo sua e solo lui l’aspira.
Nel contesto è da evidenziare il continuo ricorso all’aggettivo possessivo correlato con l’ “io” individuale.
Il Dell’Era dal viaggio non esce naufrago, ma approda ad una vita tutta sua nei lidi degli affetti familiari e della sua casa.
Non altra conclusione più coerente alla sua figura di uomo e di scrittore poteva essere riferita, tanto che a noi sembra non opportuno aggiungere altra parola.
Soltanto un ringraziamento ci sentiamo di volgere a Tommaso Dell’Era, che voce del tempo e nel tempo, ci illumina a percorrere quella via, dove letteratura e vita e soprattutto mondo reale e mondo ideale tendono a conciliarsi.
 
 
Salvatore Coico
 
 
 
 

[1] C. Bo- Identità letteratura-vita- Frontespizio-agosto 1938
[2] I. Silone- Uscita di sicurezza-Firenze-Vallecchi-1965-pag.148
[3] Pier Paolo Pasolini -’Usignolo della Chiesa cattolica -Einaudi 1943
[4] O. Rosai- Difesa -in Frontespizio n.3- marzo 1936
[5] S. Quasimodo- Dalla Silloge “Giorno dopo giorno”-1947 “Alle fronde dei salici” ww.5-6
[6] P. Paolo Pasolini- La libertà stilistica- in “ Officina” giugno 1957, 9,10
[7] P. Paolo Pasolini- “Passione e Ideologia”- Milano 1960
[8] P. Paolo Pasolini-Le ceneri di Gramsci-1960- I ed. pag.70
[9] P. Paolo Pasolini- Nuovi argomenti 1957
[10] E. Vittorini- Il Politecnico-1946-n.31
[11] V. Pratolini- in Opere e Giorni-Bargello- 29 agosto 1937
[12] E. Montale- Da- Satura I- “La Storia” 1969- “La storia non si snoda”
[13] Heidegger- Lettera sull’umanismo- Torino 1975
[14] N. Abbagnano- Introduzione all’esistenzialismo- Torino- 1957

 

 

 OMMASO dell’

Bertold Brecht “Vita di Galileo”

Bertold  Brecht
a) Biografia
b) Esordio
c) Teatro epico
d) “VITA  DI  GALILEO”

Nota dell’autore

 
Bertold  Brecht nasce  nel 1859 a  Baviera. Dal  1917 al 1819 frequenta a Monaco la facoltà di medicina.
Nel 1819 collabora  come critico drammatico all’organo del partito socialdemocratico.
Il suo primo dramma s’intitola “Baal”, cui segue la commedia “Tamburi nella notte”.
Il successo gli arride con “L’opera di tre soldi”, composta nel 1928. Comincia la sua opera teatrale a scopo didattico. Venuto in sospetto ai nazisti deve recarsi in  esilio.
Nel 1934 scrive il suo ultimo dramma didattico : “Gli Orazi e i Curiazi” e pubblica una raccolta di versi.
 Nel 1939 scrive “Madre Coraggio”, che segue la prima stesura di “Vita di Galileo”, scritta l’anno precedente.
 Nel 1941 si rifugia in America, poi in Svizzera; nell’ottobre del 1848 si trasferisce nel settore orientale di Berlino.
Nel 1950 viene nominato membro dell’Accademia delle Arti.
  Il successo va adesso sempre più ingigantendosi fin quando la sua vita non viene stroncata da un infarto il 14 agosto del 1956.
Gli anni dell’adolescenza di B.Brecht coincidono con lo scoppio della prima guerra mondiale.
Per la Germania si apriva uno dei periodi più tumultuosi  e cruenti della storia.
Agli albori del 1818 ci fu un divampare di scioperi generali, in agosto iniziò la disfatta del terzo Reich.
 Nel novembre di quello stesso anno i consigli degli operai e dei soldati, riuniti in assemblea, elessero un governo repubblicano, formato in maggior parte da socialisti.
 Sembrava realizzarsi il sogno di un’intera generazione: il potere nelle mani del popolo.
 Ma il movimento socialista non fu in grado di affrontare la grave crisi. Numerosi furono gli assassini politici e la confusione, che si agitò, aiutò la destra a sopprimere la repubblica di Weimer.
 In tale circostanza un ruolo di prima importanza avrà Hitler, che Brecht chiamava “l’imbianchino”.
 Come ha scritto Fritz Martini: “finiva un grande ciclo storico, iniziatosi col rinascimento nei movimenti politico-sociali, religiosi e filosofici, nei nuovi impulsi della civiltà tecnico-scientifica.”
 Tutte queste tensioni, congiunte alla crisi e al contempo alla scoperta di nuovi valori sia nel campo spirituale che in quello artistico, avevano ingenerato, secondo lo studioso, una nuova umanità che tenta di esprimere se stessa nella totalità dell’universo e la cui lezione è presente nell’età contemporanea.
Emblema di questa condizione può essere considerata la tematica esposta nella “Vita di Galileo”, che  esprime la volontà di ricostruire il mondo su basi razionali.
 ESORDIO
 L’esordio di Brecht tanto nella poesia quanto nel teatro avviene nell’ambito della corrente dell’espressionismo. Tipizzante di questo periodo è la figura di Baal.
 Baal è un cantante di cabaret, che senza alcuna regola morale  erra  da un punto all’altro e da una persona all’altra.
 Una ragazza, da lui sedotta, si ucciderà disperata. Inoltre tradisce il suo migliore amico, che uccide, dopo avergli sottratto la fidanzata. Alla fine andrà a morire in un bosco lontano da tutti.
In Baal si configura il dramma dell’esistente nell’ultimo drammatico tentativo di conciliarsi con la natura.
Baal è l’eroe non tanto dell’adeguamento alla società per sopravvivere, quanto dell’adeguamento della natura nella sua forma eternamente presente ed immutabile.
 Dal tono anarchico e ribelle di Baal si passa alla parabola didattica, che indulge ad un orizzonte di attesa tra un mondo innocente ed un ironico gusto del paradosso. Questi termini ci riconducono alla poetica pirandelliana presente in un’ altra opera brechtiana:“Un uomo è un uomo”.
In quest’opera l’autore coglie il rapporto uomo-natura-essere-individuo.
Brecht iniziava a concepire la forma del teatro epico ed il principio dello straniamento.
 Rilevante per la sua vita di uomo e di artista fu l’incontro con Piscator, regista e pensatore, che lo indurrà ad applicare le teorie marxiste ai drammi.
 L’autore concreta la sua istanza sociologica nella produzione artistica.
 Ne “L’opera di tre soldi” rappresenta una società, in cui si aggirano malviventi, prostitute.Mackie viene imprigionato nel giorno delle sue nozze perché accusato di delazione di una prostituta. Evade, ma riesce ad essere salvato da un messaggero della regina.
 Significative  le parole finali dell’opera “Restate tutti dove siete a cantare la corale  dei miseri tra i miseri, la cui dura esistenza oggi fu rappresentata. La realtà, purtroppo , è assai diversa, si sa. I messi a cavallo giungono assai di rado, se i calpestati osano recalcitrare. E però non vi accanite troppo sul peccato.”
Assume una pregnante valenza la lezione marxista congiunta al preciso intento dell’autore di condannare la classe borghese.
Brecht, inoltre, intendeva abbattere i canoni estetici, legate alle teorie aristoteliche, fondate sul principio della catarsi ed ormai ritenute inutili ad innovare la coscienza morale e civile del popolo, e proponeva un nuovo modello di teatro epico, le cui sequenze dovevano essere proprio quelle del teatro popolare, ispirato al vissuto e al quotidiano, con scene staccate l’una dall’altra e con la fusione di nuovi registri fomale-espressivi, cui si attribuisce peculiare importanza (parola, musica, gesto ).
 Infatti, mentre prima si  tendeva all’empatia (commozione del pubblico ), ora invece l’autore si distanzia dallo spettatore (straniamento).
Il pubblico viene messo in grado non solo di partecipare, ma anche di giudicare.
 Il teatro di Brecht  non mira alla commozione, ma a sviluppare il senso critico.
Questo era il fine didattico del teatro sociologico. La teoria dello straniamento è già presente in “Santa Giovanna dei macelli”.
 Il lavoro intende essere un rifacimento della storia di Giovanna d’Arco. Johanna Dark,giovane rappresentante dell’esercito di salvezza, si illude di poter alleviare le umiliazioni e le sofferenze patite dagli operai del mattatoio; viene raggirata dalle promesse, che si rivelano false di Pierpoint.
 Si agita uno sciopero nel quale vengono coinvolti molti operai ed arrestati..Delusa tra il trambusto della rivolta muore Johanna.
 Ma nel momento della morte, con un espediente degno proprio del tono beffardo contornato dall’assurdo pirandelliano, si celebra la canonizzazione della ragazza da parte degli speculatori,  che hanno fatto uso dell’ “humanitas” e della “pietas” della ragazza per raggirare il proletariato.
Attraverso questa dura realtà l’autore definisce il rapporto esistente al suo tempo tra religione e capitale.
 
TEATRO EPICO
Lo scopo di  Brecht, come si può desumere da quanto innanzi enunciato, era quello di produrre al contempo un teatro epico e politico.
 Come Piscator Brecht aspirava ad un dramma scientifico e marxista, che comprendesse le profonde ragioni sociali e storiche del popolo.
Il teatro, in tal modo, diventava protesta antiborghese.
 Ricordiamo che nell’opera “Ascesa e caduta della città di Mahagonny”, nel momento culminante, quando il protagonista è condannato a morte per non aver pagato i debiti, il pubblico borghese fu chiamato in causa con un’iscrizione sullo schermo: “Molti fra voi guarderete con disprezzo l’esecuzione di Paul Ackerman, ma anche voi non avete  in fondo al cuore alcuna voglia di pagare per lui. Così alto è ai nostri giorni il valore del denaro.”
Alla novità dell’argomentare si unisce un linguaggio nuovo, che protesta contro l’aborrita borghesia.
 Il linguaggio diventa funzionale al suo discorso, ai fatti realisticamente espressi. Al linguaggio si unisce l’incisività del gesto.
Intanto si va delineando sempre più la distinzione tra genere epico e teatro aristotelico.
 Il pubblico non doveva essere costretto ad avere emozioni, ma doveva essere indotto a pensare.
Mentre  il teatro dell’illusione cerca di ricreare un presente spurio, il teatro epico è strettamente storico.
Bisogna trasformare, dice Brecht, il vecchio teatro dell’illusione, che definisce “un traffico di droga” in un “sussidio didattico”.
L’effetto totale del dramma si ottiene  con la giustapposizione ed il montaggio di episodi   contrastanti, mentre il dramma aristotelico può essere concepito nella sua unità formale.
 Musica e gestualità saranno interfunzionali alla scena e daranno  al pubblico la possibilità di riflettere.
 Brecht, inoltre, era convinto che il teatro epico e non quello aristotelico fosse destinato a diventare il teatro dell’era scientifica. “In un’età, così scriveva, “in cui la scienza veniva a trasformare la  natura fino al punto da far sembrare l’uomo come vittima, come oggetto, lo stesso mondo dell’umanità si può descrivere come un oggetto che può essere trasformato.”
 Questo interesse allo scientificismo stigmatizza la lezione galileiana insita nella sua opera.
 Inoltre il teatro epico si presentava come il teatro marxista per eccellenza e come teatro dialettico.
 Seguendo la lezione marxista, inoltre, Brecht pensava che la letteratura è parte della storia e che la storia non deve essere falsificata.
 La grandezza della concezione storica del marxismo lo colpì talmente che cercò di mettere in esametri il manifesto comunista ispirandosi al “De rerum natura” di Lucrezio : “Leggendo la storia, leggi degli atti e dei grandi individui / che si elevarono e caddero come stelle e la marcia possente delle loro armate / fece la gloria e la rovina degli imperi.”
 Ma per i classici la storia è soprattutto la storia della lotta di classe, mentre il teatro epico, pur attingendo alla storia dei classici, è imbevuto dell’ ideologia marxista ed ha per il drammaturgo una natura prevalentemente scientifica.
 La ricerca scientifica indulgeva,altresì, al dubbio, allo spirito critico. Uno dei discepoli diBrecht racconta, che durante le prove della rappresentazione della “Vita di Galileo”, il drammaturgo sottolineava sempre questa frase : “Il mio compito non è di dimostrare che ho avuto ragione sin ora, ma capire se ho avuto ragione”, definendola la più importante di tutto il dramma per un marxista.
 Alla ricerca della verità si aggiungeva una fiducia nel cammino, che l’autore giudica “non pazzia, ma fine della pazzia, non caos, ma ordine, quella semplice cosa così difficile da realizzare”.
In “Paura e miseria del terzo Reich” muove un’accusa precisa al nazismo: quella di affamare i lavoratori e di abbandonarli nelle mani dei capitalisti.
In realtà tutto il potere del nazismo si fondava sul fatto che il popolo si illudeva che gli venisse attribuito un benessere materiale notevole, mentre, in verità lo si alienava di ogni forma  di libertà.
Il teatro di Brecht evoca in senso storico il dramma di un popolo e la trasposizione del reale nella rappresentazione teatrale si tramuta in vera opera di poesia.
. Nel rispetto dei canoni estetici, ispirati al realismo di stampo socialista, la verità e l’esattezza storica dell’immagine artistica devono essere connesse al compito di trasformare ideologicamente la società e di educare i lavoratori allo spirito del socialismo.
GLI  ITINERARI  IDEOLOGICO- ARTISTICI DI BRECHT PRODROMICI ALLA COMPOSIZIONE DELLA “VITA  DI GALILEO”
Brecht, nell’approcciarsi al pensiero di Galileo, analizza il processo dialettico di Ragionecontro Istinto.
L’istinto può essere rappresentato da  Baal,che l’autore scrive a soli 19 anni, mentre la ragione è impersonata da Galileo.
Secondo Eslin, però, in Galileo persiste  l’alternarsi tra istinto e ragione.
Anche Galileo è un genio ed è al contempo un uomo lascivo e goloso, ma il suo istinto più forte è la curiosità ed il suo più grande piacere è il piacere della curiosità.
Qui  Brecht tocca il nocciolo della questione: il desiderio della conoscenza, il lato più razionale degli sforzi umani è rappresentato come un altro degli impulsi fondamentali ed istintivi dell’uomo.
Per poter soddisfare questo istinto Galileo è pronto a commettere le azioni più vili, imbroglia iVeneziani vendendo il telescopio, che non ha inventato, scrive lettere servili ai Medici ed infine abiura.
 Sembra che, prima di morire, Brecht volesse accusare pesantemente Galileo dell’abiura, in quanto vedeva nello scienziato non colui che aveva abiurato per salvare la scienza, ma colui che con la sua codardia aveva instaurato la sottomissione dello scienziato allo stato, una tradizione, secondo Brecht, culminata nella bomba atomica, che la scienza ha messo a disposizione di uomini comuni perché la usino per la loro politica di potenza.
Galileo, l’eroe della scienza, avrebbe potuto essere l’incarnazione della ragione in tutta la sua grandezza, ma ancora una volta annientata nella sua incapacità a superare il lato più basso, istintivo, informe della natura umana.
Questa sarebbe stata, secondo alcuni critici, l’ultima interpretazione, che Brecht avrebbe fatto del suo  Galileo, mentre l’opera ci sembra che ci dia un messaggio diverso.
INTERTESTUALITA’ TRA MADRE COURAGE E VITA DI GALILEO
Un elemento accomuna la “Vita di Galileo” con “Madre Courage”. La vivandiera cantava la canzone “Capitolazione” ed esprimeva la quintessenza dei personaggi presenti nella scena di “  Terrore e miseria del terzo Reich”.
Anche Galileo con la sua abiura sembra capitolare. Ma mentre Madame Courage, che ha perduto i suoi tre figli nella guerra, continua la sua opera senza rendersene conto, Galileo abiura per continuare a lavorare senza essere molestato dai persecutori.
Il dramma, iniziato nel 1938, fu compiuto a Zurigo nel 1943 nella redazione originale.
Poi Brecht visse il periodo della preparazione della bomba atomica e del suo lancio.
L’aspetto nodale del dramma è quello dell’abiura: deve essere intesa come un’abile, astuta capitolazione al servizio della verità?
Se questa era l’impostazione originaria dell’autore, dopo il lancio della bomba atomica, il suo giudizio è modificato.
Nella scena XIV Galileo afferma “Non credo che la scienza possa porsi altro scopo che quello di alleviare la fatica dell’esistenza umana, se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei poteri egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere; la scienza può rimanere fiaccata  per sempre ed ogni nuova macchina non sarà che fonte di nuove tribolazioni per l’uomo. Un uomo che contravviene a questi principi, che rifiuta la responsabilità delle ricerche o addirittura le ritratta abiurando, non può essere tollerato nei ranghi della scienza”.
 Questa autocritica, secondo la teoria dello straniamento, doveva indurre il pubblico a riflettere.
Nella XIII scena che sembra esprimere anche l’opinione dello scrittore di teatro il discepolo Andrea dice: “Ma oggi tutto è cambiato. L’umanità umiliata solleva la testa e dice finalmente, posso vivere, questo è quello che si ottiene quando qualcuno dice di no.”
L’attesa di Andrea, però, sarà delusa dalla dichiarazione di abiura del maestro e Galileo si presentava come un eroe negativo.
 La sua azione negativa deve rendere, però, evidente la possibilità di un’azione positiva.
Nelle note postume al dramma l’autore fa riferimento alla situazione di taluni fisici americani e soprattutto di Robert Oppeneheur, scienziati che si affrettarono ad abbandonare il servizio alle dipendenze del loro bellicoso governo, accettando una cattedra, dover erano costretti a sciupare il loro tempo e a rinnegare i loro principi più elementari.
Scoprire qualcosa era diventata un’ignominia.
 Si rinvengono i germi di un’argomentazione che doveva essere ulteriormente sviluppata da Duremmont nella sua commedia :“I fisici contro Brecht stesso”.
 In quest’opera si evidenzia  l’esigenza, posta dal personaggio di Galileo, di porre la scienza al servizio dell’umanità.
Invero l’opera di Brecht, seguendo la linea del personaggio negativo di Madame Courage, sembra ammonirci che i fisici nel mondo e nella società del tempo non possono essere eroi di nessun fatta, né eroi negativi, né eroi positivi.
Ricordiamo la frase “Sventurata la terra che non ha eroi, dice Andrea, mentre Galileo risponde “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”.
La frase risale alla prima composizione del dramma allorquando l’autore considerava l’abiura un compromesso da approvare per continuare a lavorare. 
 

Nota dell’autore

La presente argomentazione ritengo possa avere una valenza didattica..
Il messaggio di Brecht, in effetti, è plurivoco ed abbraccia nuclei fondanti del pensiero umanistico anche nella sfera didattica.
Può, in effetti, fornire una lettura specifica dei tragici eventi bellici e al contempo aiutare a comprendere  la condizione esistenziale dell’uomo nella storia del suo tempo.
E’ inoltre opportuno cogliere  la lezione di “teatro didattico” tramandataci dall’autore e il cui messaggio è presente ai nostri giorni.
La rivisitazione, in particolare, del personaggio di Galileo da parte di Brecht assume un significato di primaria importanza  per comprendere pienamente l’aspetto categoriale della “rivoluzione copernicana” in tutte le sue componenti, ivi inclusa quella didattica.
Invero Andrea della “Vita di Galileo”, è da raffigurare come emblema del giovane studente di oggi, che reputa, e a ragione, di essere deluso nelle sue attese.
Il rapporto, inoltre, tra scienza e potere, stigmatizzato dall’autore può indurre il docente a sviluppare in senso diacronico percorsi scolastici trasversali inglobanti conoscenze storiche, filosofiche e letterarie

L’età umanistico- rinascimentale

Terminus ante quem e terminus post quem dell’età dell’Umanesimo 

L’età dell’Umanesimo è da considerare un momento dell’età rinascimentale,età in cui si evolvono nuove forze economico-politiche,dopo che erano tramontati i sogni universalistici del Papato e dell’Impero.In senso storico-letterario si intende dare inizio a questo periodo con la lettera di Coluccio Salutati (1396) che invita il dotto di Costantinopoli Manuele Cristolora ad insegnare letteratura greca. E’ una data simbolica quanto mai importante per far comprendere che Firenze, nata “ab Fiesole antica” veniva ad essere l’erede di Roma e la novella Atene. Col 1492, invece, a seguito della morte di Lorenzo il Magnifico si chiude quest’età che si era protesa con la pace di Lodi (1454 ), grazie alla politica dell’equilibrio, ad un periodo di “renascentia” e “renovatio”. L’equilibrio sarà piuttosto effimero, come si può storicamente leggere con una nota dolente della “Canzone di Bacco ed Arianna” di Lorenzo il Magnifico “Chi vuol essere lieto sia/ di doman non v’è certezza….”Il 1492 è altresì la data della scoperta dell’America. L’uomo abbatte le colonne d’Ercole per scoprire nuovi mondi e per affermare la sua presenza nel cosmo. La Chiesa, invece,continua ad essere travagliata dalle lotte interne.
Lo Scisma di Oriente e di OccidenteLo scisma di Oriente ed Occidente porta all’affermazione di chiese nazionali e al diffondersi dei movimenti ereticali, che, rispetto all’età medioevale, si presentavano più compatti. La Chiesa con il suo rientro a Roma tendeva a trasformarsi in uno stato italiano ed il pontefice assumeva i lineamenti del grande sovrano rinascimentale, amante del fasto e proteso ad ingrandire col nepotismo il potere e la propria famiglia. Si pensi a proposito ad Alessandro VI Borgia e al peso che avrà anche nella concezione machiavelliana. Si accentua la tendenza all’allargamento degli stati più potenti; ricorrono, pertanto, i processi di maturazione della crisi dell’istituto comunale e dell’affermazione del principato. Significativo, a tal punto, è l’instaurazione a Firenze del potere mediceo.

Le ragioni socio-economico-politiche del periodoLe figure più rappresentative furono quelle di Cosimo.e Lorenzo. In questo momento, nonostante un fiorire dell’attività economica presso i banchieri ed un crescente avanzamento della borghesia, cominciarono a verificarsi delle crisi profonde perché le Signorie diventano espressione di interessi particolaristici a danno di una stratigrafia sociale compatta ed unita. Inoltre le Signorie non riescono ad assurgere ad uno stato nazionale e sono lacerate da lotte intestine e lo stato unitario, invocato dal Machiavelli, è soltanto un’utopia. Nel frattempo crescevano le grandi monarchie assolute ed unitarie, su cui si poggeranno i presupposti politico-sociali dell’età dei lumi.
In Spagna con l’unione realizzata attraverso il matrimonio di Ferdinando di Castiglia e di Isabella di Aragona si gettavano le basi per la definitiva liberazione del territorio nazionale degli Arabi e per la successiva espansione verso l’Italia ed il nuovo mondo.

In Francia, dopo la fortunata conclusione della guerra dei Cento Anni, Luigi XI procede ad una potente opera di riorganizzazione e di centralizzazione economica e politica.

Nell’Europa, infine, la casa degli Asburgo viene ad avere nelle mani, per una fortunata catena di matrimoni, non solo gli originari domini austriaci, ma anche la Boemia e l’Ungheria.. Su questo sfondo storico quanto mai inquieto si sviluppa l’etàumanistico-rinascimentale. Secondo il Saitta il passaggio dalla storia medievale alla storia umanistico-rinascimentale è contraddistinto da tre fatti capitali.

Il primo si presenta sul piano economico-sociale ed è costituito dallo sviluppo del precapitalismo, dal sorgere di una nuova tecnica finanziaria e bancaria, dall’apporto di nuovi metalli preziosi, dovuto alla scoperta dell’America.

Il secondo più strettamente politico determina la costituzione di forti compagini statali sulla base di una raggiunta compatezza territoriale e di un accentramento burocratico. ( i cosiddetti stati nazionali )

Il terzo si presenta sul piano più strettamente spirituale ed è costituito dall’inverarsi di tutta una nuova filosofia e di una nuova civiltà. (Umanesimo-Rinascimento )

Interpretazioni critiche del Burdach e del Burckardt
Da un punto di vista critico c’è da discutere sul rapporto Medioevo-Rinascimento e sul processo di continuità postulato da Burdach e su quello di contrapposizione teorizzato da Burckardt.
Il Medioevo aveva celebrato la trascendenza, mentre l’età umanistico-rinascimentale esaltava l’attività umana. Così scrive Engels “dalle rovine di Roma si disseppellivano le antiche statue e di fronte alle luminose immagini di quel mondo scompaiono gli spettri del Medioevo. E’ l’affermazione della scoperta di una “sapientia in homine ,quae extitit ante saecula”.Questo enunciato,che si potrebbe leggere,come elemento di netta opposizione col Medioevo, rappresenta, invece, una forma di continuità con l’età medievale. Il Burdach ha addirittura collegato il Rinascimento nel suo sviluppo iniziale con il grande movimento religioso dell’Italia del ‘200 e con tutta l’attesa escatologica del Medioevo riallacciando il tema della”renascentia” con quello della “renovatio”. E già all’età del Petrarca e del Boccaccio, sempre secondo il Burdach, inizia un nuovo modo di concepire la vita attraverso mutamenti economici e sociali, in cui l’uomo comincia ad essere protagonista.-Umanesimo e Rinascimento sono termini, quindi, che riflettono la stessa realtà, la ricerca dell’uomo proteso alla natura e alla ragione. Il che avrà implicanze anche nella connotazione nuova che assumerà la politica nella celebrazione dello stato unitario.(Machiavelli).

La nuova dimensione dell’uomo tra macrocosmo e microcosmo-Verso l’antropocentrismo
L’umanista pare che si restringa tutto nello studio e nella celebrazione di quello che è strettamente umano nell’animo suo stesso, nella memoria, nella tradizione, laddove l’uomo del Rinascimento gira lo sguardo fuori dal mondo abbracciandolo con la totalità dell’intelletto. Questo concetto ci porta a concepire come esemplificativa del Rinascimento l’opera di L.Ariosto. Nel modo con cui il poeta contempla il cosmo, osserva il Croce, “si svela l’occhio di Dio, che tutto vede”.Nella sfera del meraviglioso, nel “sovramondo”, secondo la critica del Binni, il poeta si afferma come uomo nella sua partecipazione vitale con la natura, di cui contempla l’armonia, che ricrea nella polifonia musicale dell’ottava. Un mondo questo della natura magico, meraviglioso, in cui l’uomo tende a quell’eudaimonia, che è aspirazione dell’uomo rinascimentale, ma che spesso viene contraddetta dal reale storico.

Il principio di “natura “ e “ragione” e la lezione del classicismo
Contemplazione del mondo, quindi, nell’età rinascimentale, vuol anche significare “plenitudo temporis” e cioè capacità dell’intelletto dell’uomo di cogliere l’universo accordo nelle cose e di riproporre l’armonia del creato nell’inventività fantastico-lirica.. La selva incantata, attraverso la quale fugge Angelica, è sì un capolavoro dell’arte ariostesca, ma al contempo può essere letta in chiave filosofica riproponendo quel rapporto tra microcosmo e macrocosmo e quel tendere ad un bello ideale che è armonia ed essenza delle cose e delle cose in rapporto all’uomo.
In effetti già con l’Umanesimo l’uomo diventa il centro, il cardine della filosofia e della concezione del mondo.

Per Ficino il “deus” è “incohatus” ( dentro di noi ) e la natura stessa è considerata “anima mundi hominisque “.La natura è, infatti,il presupposto fondamentale per comprendere la dimensione dell’uomo in chiave storico-filosofica, il momento della sua contemplazione e quello della sua ironia, che seppure originati dalla” mesòthes” oraziana, acquistano un carattere tipicamente rinascimentale. Infatti nel primo Rinascimento il classicismo si armonizza compiutamente con le istanze rinascimentali e diventa, per dirla con Croce “un classicismo dinamico” in quanto assurge come valore normativo di tutta quanta l’età rinascimentale. E’ da rilevare che tutti gli autori dell’età umanistico-rinascimentale rinvenivano negli autori classici il loro paradigma ideale, sia pure nell’alternanza delle forme e dei modelli letterari.

Ariosto trovava in Orazio l’”exemplum” rivivendolo colle implicanze filosofico-morali insite nella sua opera di uomo e di artista. Altri eleggono a prototipo della loro ispirazione un classicismo tradito dal Petrarca e che risente ampiamente della lezione dell’ecclettismo di stampo ciceroriano. Altri ancora teorizzano il principio della “virtus” e si volgono alla storiografia liviana e al tacitismo. Ed è proprio Machiavelli che stigmatizza la necessità di leggere la “verità effettuale” delle cose “attraverso la lezione degli antiqui”. La storia così da pragmatica, seguendo la lezione della storiografia greca da Tucidide a Polibio, diventa paradigmatica. Il classicismo opera la saldatura tra passato e presente. Alla luce della filosofia classica l’uomo rinascimentale vive “catà phùsin”. Il principio vitale della “phùsis”, inoltre nell’uomo cinquecentesco si connota in una molteplicità di forme ed espressioni correlandosi ora come “virtus”, intesa come “vis” e “dùnamis” all’interno di uno stato non più trascendente, ma naturale, ora realizzandosi come costante etopoietica dell’uomo nelle sue manifestazioni quotidiane e nella sua rappresentazione attraverso il genere letterario della commedia, che accoglie la lezione plautina e quella terenziana.. Non ci meraviglieremo, pertanto, se il più grande teorizzatore della politica Machiavelli è al contempo l’autore di una delle più rinomate commedie del ‘500 “La Mandragola”. Agli spiriti del ‘500, infatti, non poteva essere misconosciuta la tradizione plautina e quella terenziana nel momento in cui la commedia perdeva il significato tipicamente medievale di arte mezzana per essere riproposta come genere a sé stante riproducente la gamma dei sentimenti e dei caratteri dei personaggi popolari e borghesi. Il naturalismo così trova in tutte le forme di espressione artistica la rappresentazione di tutte le forze vitali dell’uomo nel modo di relazionarsi con gli altri e con il mondo. Il Salinari vede congiunto al naturalismo il principio del realismo, che già teorizzato dall’Auebarch nell’opera dantesca, si era evoluto nella commedia del Boccaccio per poi approdare in tutti i campi, da quello politico, a quello filosofico-scientifico propriamente nella sfera umana. L’”homo sum” terenziano, in tal modo, rinveniva la sua polisemia nella molteplicità delle forme dell’Essere e della loro estrinsecazione negli atteggiamenti del pensiero e della produzione artistica. Possiamo affermare, pertanto, con lo Chabod che, mentre i classici latini servivano agli uomini del medioevo perché la Roma antica si accordasse con la Roma cristiana, adesso, attraverso la scoperta filologica delle opere dei poeti antichi, si cercava di comprendere i valori intellettuali e morali dell’età passata per relazionarli con quelli del proprio tempo cogliendone le affinità e le differenze. “L’antichità classica”, dice ancora lo Chabod, “diventa l’ideale momento della storia umana, in cui si sono realizzate le più alte aspirazioni degli uomini, il momento-modello, in cui bisogna specchiarsi per avere chiara e sicura guida a più alto operare nelle lettere come nelle arti, come nella politica e nella milizia.”

La funzione degli intellettuali

A questo punto è necessario enucleare quale funzione abbiano avuto gli intellettuali nella nuova società -“La formazione di organismi territoriali particolarmente estesi”, osserva il Procacci, “dotati di un apparato amministrativo complesso, la necessità di intrattenere una diplomazia operosa ed un nutrito corpo di rappresentanti, la nascita presso vari signori di vere e proprie corti concepite come strumenti di prestigio, sono elementi che contribuirono ad aumentare la richiesta di personale intellettuale qualificato”. Le Università già esistenti non sono più sufficienti. .Sorgono scuole a carattere privato, accademie. Si delineava, altresì, una novità nelle strategie pedagogiche. Il rapporto tra maestro ed allievo era più diretto e comunicativo di contro all’insegnamento di tipo dommatico- aristotelico proprio delle università medievali. Gli stessi letterati viaggiavano da un luogo ad un altro e la cultura assumeva un carattere dinamico. Opportunamente, osserva il Procacci, “i vincoli di solidarietà e di colleganza, che già esistevano nell’ambito dell’”intellighenthia” italiana si vennero rinsaldando, fino a diventare piena consapevolezza della funzione particolare riservata ai dotti e ai letterati della “koinè” italiana”.

Bisogna attendere l’Illuminismo perché vi possa essere una stagione così intensa di fermenti e rinnovamenti culturali. Lo studio degli umanisti, invero, secondo la critica moderna, pone le basi per una nuova cultura europea. Si pensi, infatti, all’importanza della riscoperta di Platone, a quella del “De rerum natura” di Lucrezio ad opera di Poggio Bracciolini. Nascono le prime biblioteche; a Firenze quella di Niccolò Piccoli, a Venezia la Marciana, in cui si conservano i libri lasciati dal Petrarca, la Vaticana a Roma.

 L’umanesimo filologico di L.Valla e l’umanesimo evangelico di E. da Rotterdam

L’Umanesimo diede, inoltre,la possibilità di studiare il passato con metodo filologico, quel metodo, che servì al Valla per dimostrare l’infondatezza della donazione di Costatino. La dimensione della filologia genera, altresì, quella della storicità. Non si trattava di contrapporre Platone ad Aristotele, ma di interpretare il modo diverso la realtà. Ci sembra di precorrere, in tal modo, la grande concezione galileiana, che avrebbe rivoluzionato il mondo allorquando lo scienziato si poneva a “leggere il libro della natura” per scoprire in esso le leggi di Dio.

“Aletheia”, afferma L.Battista Alberti “è figlia di kronos”. Contemporaneamente Palmieri sentenziava “ veritatis profecto cognitionem dant tempora”.

Ma perché si possa dare una visione completa dell’Umanesimo bisogna soffermarsi su i due suoi più importanti esponenti: L.Valla, maestro dell’umanesimo filologico ed Erasmo da Rotterdam, maestro dell’umanesimo evangelico. Lorenzo Valla nel “De falso credita ed ementita Costantini donatione” aveva con metodo filologico dimostrato la falsità del documento. Il filologo intese perfettamente che la “renovatio studiorum” ed il ritorno agli antichi dovevano estendersi nei confronti di tutte le forme ed i modi della cultura. Nelle “Elegantiae” il Valla seppe mostrare come lo studio storico e la critica filologica dei modi e degli usi linguistici potessero trasformarsi in un momento di radicale rinnovamento del sapere storico-giuridico-filosofico e teologico. Condanna l’insipienza dei moderni, che non hanno saputo salvare la lingua e la verità dei Padri, rendendo confuso ed incerto ogni dominio del sapere, dalla logica all’oratoria, dalla grammatica al diritto, dalla storia alla teologia. “Solo la conoscenza della parola”, dice Valla, “solo lo studio filologico e storico può restituire l’intima vita di ogni forma di pensiero colto nella sua prima formazione, seguito nei suoi diversi svolgimenti sino agli esiti più vicini”.

Si comprende chiaramente come Valla precorra l’aspetto peculiare dello strutturalismo linguistico estendendolo anche alla sfera politico-sociale. Infatti il Valla diceva della lingua di Cicerone “è quella lingua che ha insegnato a tutti i popoli le arti liberali avendo espresso ottime leggi e aperto a tutti la via della sapienza”. “Difendere,restaurare l’”imperium”, sempre,secondo il filologo significa”uscire da quell’età oscura infelice e barbara nella quale sono decadute tutte le istituzioni e si è ottenebrata la stessa tradizione divina della Christianitas”

Allievo e seguace di Valla è Erasmo da Rotterdam, che volendosi considerare “mundi civis” incarna perfettamente l’ideale cosmopolitico ed universalistico dell’umanesimo e, al di là dei dogmi di Roma, delle dottrine di Lutero, ha fede in una cultura nuova, solo fondamento su cui si può inverare il rinnovamento di una civiltà terribilmente lacerata e divisa. “L’uomo”, afferma Erasmo, “confida di veder restituite al genere umano la pura fede cristiana, le lettere e l’universale concordia”. Insofferente dei sofismi dei logici, nemico dell’oscura dottrina dei teologi che hanno confuso le parole di Cristo con i sillogismi di Aristotele, l’umanista olandese non crede neppure ai profeti ed in tutti coloro che sono propensi ad anteporre lo spirito di parte alla funzione liberante e persuasiva della cultura. Si contrappone alle degenerazioni pedantesche dell’umanesimo retorico, alla stoltezza di quei grammatici ciceroniani sempre più fanatici che riducono la rinascita delle lettere ad un pedissequo gioco di imitazione libresca. Erasmo riconosce nel vincolo vivente di una comune tradizione linguistica la testimonianza di un’unità civile che deve essere ristabilita e mantenuta ad ogni costo. Il vero senso della rinascita e del ritorno all’antico consiste appunto nello stabilire le condizioni prime ed essenziali perché tutta l’umanità si rinnovi, perché dalla restaurazione della lingua e della cultura si giunga ad un integrale rinnovamento dell’uomo. Nei “Libri antibarbarorum” attribuisce la responsabilità della decadenza ai cristiani dell’età post-patristica, che avevano avvertito il contrasto tra la loro fede e gli studi tradizionali, ovvero tra classicismo e cristianesimo. “ I veri Goti, dice Erasmo, non erano stati gli indotti ed i rudi guerrieri germanici,ma gli uomini della scienza,che avevano oscurato con i loro tenebrosi commentari gli autori tradotti dal greco”. Per il filologo a quel tempo si celebrava il ritorno degli”humanitatis studia”, “rifioriva la bellezza nell’arte, nella scultura, nell’architettura”. Per Erasmo la nuova “aetas mirabilis” doveva connotarsi con il segno della “pax christiana”, da considerare altresì come il più alto, nobile frutto della vittoria della “plenitudo hominis” sulla barbarie. I conflitti sociali del tempo non permettevano il pieno sviluppo delle idee di Erasmo; eppure sappiamo che l’ideale di una repubblica fondata sul sicuro dominio della ragione e difesa contro gli inganni e le passioni umane, doveva continuare ad ispirare a lungo la maturazione intellettuale dell’Europa moderna, alimentando anche l’esperienza vitale della civiltà illuministica.

In tempi storici più vicini il diffondersi in Germania dell’umanesimo evangelico-erasmiano attraverso la “vulgata “ della Bibbia fomenta la Riforma. Accanto al movimento ideologico erasmiano contribuiscono al diffondersi del movimento della Riforma altre cause: il sempre più rapido declino del prestigio morale della curia e del papato, l’essere arrivata anche in Germania la spinta nazionale accentratrice delle monarchie occidentali che manifestavano il loro malcontento nei confronti della fiscalità romana, la politica dei principi tedeschi preoccupati dell’elezione al trono di Carlo V di Asburgo, che si presentava come l’erede della concezione teocratica della Spagna. In Germania la crisi economica si era abbattuta nella piccola nobiltà feudale nei cosiddetti cavalieri e nella classe rurale e contadina. La miseria che li circondava li spingeva contro l’ordine costituito e contro l’esosità della curia romana.

La Riforma luterana e la dottrina erasmiana: analogie e differenze
La Riforma postulata primariamente da Lutero non era lontana dalla dottrina erasmiana e mirava all’autentico messaggio di S.Paolo ed alla chiesa primitiva ancora non mondanizzata.
Il protestantesimo luterano, però, si allontanò dalle premesse dogmatiche da cui era partito per acquistare un carattere di rivolta sociale e politica. Nella dottrina luterana il principio nuovo rivoluzionario è il rifiuto di riconoscere nella Chiesa l’unica interprete autorizzata della parola di Dio. Conseguentemente Lutero concludeva che tra l’uomo e Dio non occorreva alcun intermediario e che ogni credente nel vivo della sua fede può interpretare i testi sacri. L’altro principio basilare del luteranesimo è quello, secondo cui l’uomo può giungere alla salvezza soltanto attraverso la fede e non attraverso le opere buone, donde la massima “pecca fortiter et crede fortiter”. Questa credenza è dedotta da un versetto di S.Paolo “il giusto vivrà per la fede”, che viene interpretato in chiave pessimistica, alla luce anche di alcune annotazioni, invero non autentiche, che alcuni teologi attribuivano a S.Agostino. Seguendo questa tradizione l’uomo è irrimediabilmente corrotto dal peccato; è “vas damnationis” e solo la fede attraverso l’intervento divino della grazia può salvarlo. Dalla congetturazione di un tale pessimismo derivano nel pensiero di Lutero conseguenze di rilevanza incalcolabili. Cadeva innanzi tutto la necessità di una Chiesa che interpretasse la parola di Dio e che fosse capace di perfezionare la debole natura umana. S’inizia pure a trasformare la concezione radicale di sacramento. Lutero ridusse i sacramenti da sette a due (battesimo ed eucaristia) privandoli di quel valore carismatico che il cattolicesimo aveva loro attribuito. Scompare, infine, ogni gerarchia ecclesiastica non più necessaria alla somministrazione dei sacramenti; a questa s’opponeva la concezione del sacerdozio universale, secondo la quale ogni credente è sacerdote nel momento in cui esplica la sua vita basandosi sulla parola di Dio. Non più una Chiesa staccata dal mondo, ma la famiglia, la società sono i gradini della scala che portano a Dio. Questi principi profondamente rivoluzionari del luteranesimo hanno una doppia faccia: da un lato sgretolano il complesso dottrinale del cattolicesimo favorendo lo sviluppo dell’età moderna e spingono verso una concezione più positiva dei rapporti sociali, dall’altra rappresentano la riscossa di più arcaiche forme di sentire,l’improvviso erompere della cupa sensibilità medievale ( si pensi a Gerolamo Savonarola ) nella luminosa età rinascimentale. L’uomo che Lutero vede solo nel suo rapporto con Dio, senza l’assistenza perenne di un organismo ecclesiastico di origine divina e senza l’ausilio dei sacramenti, non è l’uomo della concezione umanistico-rinascimentale, signore di sé e della propria attività, bensì l’uomo, “vaso di ogni peccato”, che è ineluttabilmente trascinato al male e che è del tutto privo del libero arbitrio. In questi termini la dottrina luterana appare assai lungi dalla concezione umanistico- rinascimentale. Al riguardo derivò un apertissimo contrasto tra Erasmo e Lutero. Alla pubblicazione “De libero arbitrio” di Erasmo, Lutero polemizza con lo scritto “De servo arbitrio”.

Erasmo, infatti, come abbiamo detto, aveva criticato la scolastica, aveva fustigato le pratiche semplicistiche e rozze diffuse dai monaci in mezzo alle plebi ed aveva richiamato i cristiani alle lettura delle sacre scritture per riscoprire la novità e la forza del messaggio divino. Erasmo contrariamente a Lutero era un cattolico. Egli aveva tenacemente ed a lungo creduto che con la tolleranza, con i valori civili e morali della cultura umanistica, con l’aiuto e l’esempio del mondo filologico, fosse possibile sottrarre il cristianesimo dalle mani dei monaci fanatici e farlo diventare più autentico, più aderente al messaggio del suo Fondatore. Nella teoria di Lutero, invece, seppure fondata sul concetto di verità era prevalso il tono politico-rivoluzionario. Grandi furono i consensi tributi a Lutero dai ceti popolari, allorché nel 1517 pubblicava le novantacinque tesi per condannare la vendita delle indulgenze,promossa da Leone X e favorita dal monaco Tetzel, che così predicava: “appena il soldo in cassa ribalta l’anima via dal purgatorio salta”. L’opera di Lutero era destinata a svolgere un ruolo essenziale nella formazione del mondo moderno. Invero le affermazioni teologiche, una volta calate nella realtà politica e sociale del tempo, perdevano il loro aspetto dogmatico contribuivano all’insorgere di una nuova civiltà. Due all’origine erano le possibili direttive della riforma luterana. La prima tendeva a potenziare l’autorità dei principi territoriali, la seconda spingeva alcuni moti liberatori, che acquistavano anche nei ceti popolari l’aspetto di una rivendicazione sociale in contrapposizione, però, ai principi della tradizione cristiana. Infatti all’infuocata predicazione di Lutero e Carlostadio rispondevano i cavalieri che avevano come proprio obiettivo l’occupazione delle terre appartenenti al clero ed i contadini che subivano il gravame della fiscalità romana. I cavalieri ed i contadini, che avevano sperato nell’aiuto di Lutero furono, però, delusi. In effetti Lutero si schierò con l’alta feudalità: ne conseguì che i cavalieri ribelli furono facilmente domati, mentre i principi tedeschi massacravano i contadini insorti.

La crisi dell’età umanistico-rinascimentale riflessa nelle opere di N.Machiavelli e L.Ariosto
La Riforma diventava, così, strumento di potere nelle mani dei principi territoriali favorendo altresì l’ascesa di Carlo V. Affidata all’arbitrio dei grandi signori la Riforma ripiegava su basi conservatrici e ci si proiettava alla creazione di una seconda chiesa, intesa come “instrumentum regni”. A questo principio s’inspira il postulato della pace augustana (1555) “cuius regio eius religio”. E’ da ricordare che questa formulazione era già presente nel pensiero del Machiavelli, il quale matura appunto le sue concezioni politiche in un momento di delusione storica.
Invero l’età della Riforma aveva deluso i due più grandi rappresentanti del Rinascimento: Ariosto e Machiavelli. Il primo sente la lacerazione storica e ne rifugge elevandosi colla fantasia nel sovramondo attraverso la contemplazione edonistica della natura, mentre il secondo, intento a cogliere la verità effettuale delle cose, tende a distaccarsene rapportandosi al paradigma del mondo classico, leggendo, cioè, come abbiamo detto, “la realtà effettuale delle cose attraverso la lezione degli antiqui”. Invero il Machiavelli, che seppe dare un volto nuovo alla politica studiata come scienza e non più subordinata all’escatologismo medievale, ci appare un autentico figlio dell’Umanesimo. Saranno infatti, Livio e Tacito linfa vitale per il suo argomentare politico, proteso ad un concetto di “virtus”, che, al pari di quella romana, avrebbe ingenerato quei principi di natura e ragione che erano la radice stessa del pensiero politico esistente nella storiografia latina. Non soltanto il mondo classico è preponderante nell’opera di Machiavelli, ma anche la sua lezione tradita nel pensiero di Dante e di Petrarca. Non ci appare casuale, infatti, il fatto che proprio il Principe machiavelliano si concluda con i versi del Petrarca: “virtù contro furore/ prenderà l’arme e fia il combatter corto/ chè l’antico valore negli italici cor non è ancor morto.”La chiusa del Principe ci induce, pertanto, ad opinare che non esiste “hiatus” tra mondo classico e medievale e tra mondo medievale ed umanistico-rinascimentale; piuttosto si sviluppa un “continuum” diacronico di pensiero e di istanze etico-spirituali.

 Le fondamentali questioni critiche 

Il problema è stato affrontato dalla critica approfonditamente. Riportiamo a conclusione della nostra trattazione alcuni giudizi di studiosi e teorici, che ci sembrano conducenti al nostro discorso. Il Gilson afferma che definizioni Medioevo e Rinascimento sono simboli astratti di periodi storici non definiti. Haydin nel suo volume “Il Controrinascimento” (1967) approfondisce il problema in chiave storico-sociale.
Lo studioso distingue tre periodi: il rinascimento classico-umanistico, il controrinascimento, la riforma scientifica. Secondo il pensiero di Haydin, mentre il rinascimento classico non costituisce un punto di rottura col pensiero medievale quanto piuttosto una sua continuazione, sia pure trasferita su zone di interessi più profondamente interiorizzati dell’uomo, la corrente, che definisce controrinascimento e nella quale comprende Machiavelli e Lutero,sarebbe caratterizzata dal ripudio della tradizionale esaltazione della ragione come principio regolatore della vita umana e della fiducia della fede e dalla celebrazione della fenomenologia naturale, mediante la quale, si indaga sull’essenza dell’uomo e dell’universo.

L’età umanistico-rinascimentale precorre l’età dei lumi: Giudizi espressi da Voltaire, D’Alembert, Condorcet, Rousseau 

Da qui germinerebbe, altresì, la riforma scientifica che alimenterà i presupposti ideologici dell’Illuminismo. Grande, invero, fu l’interesse che l’Illuminismo nutrì nei confronti dell’età umanistico-rinacimentale anche nell’ambito sociale-politico ed in quello spirituale. Voltaire coglie un nesso tra la cultura dell’età umanistico-rinascimentale e quella “du grand siècle” sul fondamento della rivisitazione degli studi classici che avrebbero indotto l’uomo ad una nuova valorizzazione del mondo della natura e della ragione, influenzando anche il metodo scientifico di Galileo. Ed è proprio Galileo che Voltaire considera “la persona, che conclude il rinnovamento iniziato nella renascentia umanistica.”
In questo senso Rinascimento ed Età dei lumi, secondo il filosofo francese, costituirebbero un processo unico evolventesi in diverse fasi e costituente il progresso storico dell’umanità. Nella Riforma Voltaire connota un aspetto unitario del Rinascimento in quanto espressione del medesimo moto di liberazione della mente umana. Però anche per Voltaire allo splendore intellettuale ed artistico dell’Italia si contrapponeva una profonda decadenza morale non ignota al lettore di Machiavelli e Guicciardini, che ci presentano una società tenebrosa tramata o con l’astuzia della golpe o la forza del lione ovvero tutta protesa al particulare. Alessandro VI e Cesare Borgia diventano personaggi emblematici di tale epoca.
Il D’Alembert considera altrettanti fasi di un unico e costante processo la nascita filosofica ed erudita del ‘400 e la rinascita del gusto letterario ed artistico susseguenti alla “renascentia” della filosofia e della scienza che saldava l’età del Rinascimento con l’età dei lumi. . D’Alembert, Condorcet, Voltaire interpretano l’età umanistico-rinascimentale come la proposizione di una radicale trasformazione della realtà socio-politica e la considerano come lo sbocco necessario di un rinnovamento filosofico e scientifico. Rousseau prosegue nelle concezioni elaborate dai pensatori succitati, ma pone l’accento maggiormente sul principio di civilizzazione e di conquista civile attraverso il rinnovamento delle lettere.
Rousseau, infatti, opina che nell’età umanistico-rinascimentale alla conquista della vita civile, agli sviluppi delle arti, della scienza e della tecnica, non ha affatto corrisposto il progresso delle virtù e delle libertà umane,anzi afferma: ” le lettere e le arti stendevano le loro ghirlande di fiori nelle catene di ferro, di cui gli uomini sono carichi e servivano spesso a soffocare in loro il sentimento di quella libertà originale per la quale sono nati. “Schiavi felici”, aggiunge il Rousseau, “i popoli devono al loro progresso solo l’apparenza di tutte le loro virtù senza possederne alcuna ed una vile, ingannevole uniformità regnava ormai sui costumi e sui caratteri umani così lontani dalla rustica sincerità delle origini”.
Casella di testo: L’età umanistico-rinascimentale nel pensiero dei filosofi dell’idealismo romantico da Herder ad Hegel. La critica desanctiana e quella crocianaCon Rousseau vediamo che inizia a determinarsi un atteggiamento negativo della critica teorizzato successivamente dai romantici. Herder sarà il primo a valorizzare il medioevo per la sua forza creativa, misteriosa e per il suo spirito nazionale relegando l’età umanistico-rinascimentale ad arte inferiore. Secondo il filosofo l’attività letteraria dell’età umanistico-rinascimentale appariva perfetta sul piano formale, ma non su quello dell’inventività poetica. Ricordiamo che nello stesso tempo Herder esaltava i romanzi storici di Walter Scott e la poesia popolare. Lo stesso mito del medioevo crsistiano veniva esaltato da Chateaubriand in “Genie du Christianisme”. Questi sono i prodromi che influenzeranno anche la critica negativa del De Sanctis. Il ‘400, esaltato come “l’alba della civiltà dei lumi” era, in ultima analisi per i romantici, il tragico e drammatico epilogo della civiltà italiana, conclusosi poi alla fine del ‘500 con la scomparsa di ogni libertà nazionale e cittadina ed il rapido disgregarsi di ogni ideale etico-religioso-politico. Hegel accentua l’antitesi tra medioevo e rinascimento, ma perviene colla sua analisi a risultanze critiche diametralmente opposte. Il filosofo scrive: “l’assoluto predominio della Chiesa ed il potere politico dell’aristocrazia feudale avevano concorso a realizzare una società di carattere teocratico, universale, dove non v’era posto per la consapevole libertà dello spirito, né per lo sviluppo delle culture nazionali, né per la formazione degli stati e poteri autonomi, ma dominavano, invece, la volontà mistica di rinuncia e di rassegnazione. L’arte, la religione, la filosofia, le tre forme supreme, in cui si concreta la realtà della vita spirituale, erano state soffocate dal misticismo. “Sarà in seguito, per Hegel, alla lenta formazione degli stati nazionali e alla scoperta dell’America che all’uomo si schiudono nuovi orizzonti e nuove forme di esperienza. Secondo il filosofo “lo spirito aveva cessato di contemplare prevalentemente il mondo trascendente e si era volto verso la realtà fenomenica e l’interiore esperienza dell’uomo riconquistando la razionale coscienza della propria libertà.”

Questo risvegliarsi della soggettività dello spirito aveva avuto sempre per il filosofo,come prima conseguenza la rinascita delle arti e della scienza che erano interessate alle cose presenti. Così, infatti, argomenta il nostro:”l’arte cominciò a dissolvere la trascendenza oggettiva ed esteriore della religione appartenente allo scolasticismo medievale e nell’arte la soggettività che viveva il divino in sé divenne la propria attività ai fini della ragionevolezza e della bellezza” Conclude, infine, affermando che “vede rischiararsi il cielo dello spirito per l’umanità e svolgersi gradatamente la conquista della libertà e dell’autonomia storica”.. Per Hegel, infine, la scoperta della filosofia in uno con la scoperta della scienza segna “un’aurora che dopo lunghe tempeste annuncia per la prima volta un bel giorno”. La stessa riforma luterana veniva considerata dal pensatore “la rivolta decisiva che attuava, superava e trasformava in una definitiva conquista filosofica quella libertà assoluta che il Rinascimento aveva presagito e desiderato.”

Ci è sembrato ineludibile fare un breve “excursus” sulle teorie dei filosofi illuministi ed accennare al pensiero dei filosofi idealisti per meglio definire i nuclei tematici che interrelavano il medioevo con l’età umanistico-rinascimentale per comprendere le differenti ottiche ideologiche. La critica dell’’800, abbiamo visto,intendeva porre le due età in antitesi privilegiando l’età medievale che promanava assoluta pregnanza di valori religiosi e trascendenti. Il De Sanctis come il Croce, in linea con i teorici del Romanticismo, non individuarono il “novum” dell’età umanistico-rinascimentale ed il suo “continuum” con l’età precedente.
Piuttosto negativi furono, inoltre,i giudizi sul piano meramente estetico e su quello storico. Lo stesso Croce definiva tutto il ‘500 “secolo d’artisti, ma non di poeti:”

 Verso la critica moderna

Un avvio alla critica moderna propugnatrice del processo di continuazione, di evoluzione e di novità dell’età umanistico-rinascimentale ci viene offerto da E.Garin nei due volumi “Umanesimo italiano” (1952) e “Medioevo e Rinascimento (1954). Il Garin puntualizza che l’Umanesimo segna “il passaggio dell’uomo conchiuso nella sua realtà all’uomo poeta che vuol dire creatore”. Il che naturalmente porta ad una visione dinamica dell’intellettuale per cui filosofia e filologia coincidono nella peculiare attenzione al mondo fenomenico e storicistico. In tempi alquanto recenti ricordiamo le tesi di Dionisitti in “Chierici e laici” in “Geografia della storia della letteratura italiana (1967). Lo studioso analizza la condizione dell’intellettuale a partire dal Petrarca e dal Boccaccio sino al ’500 nell’alternanza di appartenenza al mondo clericale e poi a quello laico nel momento in cui veniva in crisi l’autorità ecclesiastica. L’interazione e/o l’opposizione clerico/laico porta,inoltre,sempre per il Dionositti all’opzione linguistica latino/volgare, da cui si origina gran parte delle innovazioni tematico-stilistiche degli autori esplicitando la stretta connessione tra filologia e filosofia, tra “studia humanitatis hius et id temporis”, tra un mondo ideale paradigmatico,ispirato ai modelli classici ed un modello reale,vissuto dall’autore,che intendeva interpretarlo per comunicarlo alla gente coeva. Casella di testo: I recenti contributi della critica-L’attenzione al fenomeno linguistico-L’”edonismo linguistico” inteso come”categoria estetica”Il Krestel in “La dignità dell’uomo” in ”Canti rinascimentali dell’uomo ed altri saggi”(1978), aveva in parte percorre lo stesso pensiero di Dionisitti, quando dissertando su “De dignitate hominis” di Pico della Mirandola, spiega le diverse tappe, attraverso cui si è maturato il concetto di “dignità” dall’antichità sino ai padri della Chiesa.” Il filosofo chiarisce come nella spiritualità medievale si addensa la concezione pessimistica del peccato, che sminuisce il concetto di dignità naturale suggerita dalla filosofia classica e presente nell’opera di Pico della Mirandola. Secondo l’autore “dopo l’inizio dell’umanesimo rinascimentale l’insistenza sull’uomo e sulla sua dignità diventa più duratura e sistematica di quanto era avvenuto nei secoli precedenti e anche nell’età classica”.
Sul piano strutturale linguistico sono apprezzabili i contributi proposti da C.Segre: “Edonismo linguistico del Cinquecento” in “Lingua, stile,società.”(1963) L’espressione “edonismo linguistico” è stata coniata da Segre ed è ormai una categoria critica ampiamente accettata. Prendendo le mosse dal principio desanctiano “del culto della forma”, il critico la redifinisce con gli strumenti propri dello strutturalismo, facendo rotare attorno alla parola ”arte” e alla formula”edonismo linguistico” contesti di materiali ben diversi, fruibili dal lettore come prodotti letterari di elevata sensibilità poetico-stilistica.
Ci è sembrato opportuno accennare a queste ultime interpretazioni per meglio poter leggere la realtà ideale e storico-sociale dell’età umanistico-rinascimentale e per indicare opportune strategie sul piano epistemologico e su quello didattico.

 BIBILOGRAFIA

Principale bibliografia generale

 W.BINNI :Poetica,critica e storia letteraria”-Bari-Laterza 1963

W:BINNI:”Mondo e poesia di L.Ariosto-Messina 1947

K. BURDACH: Riforma,Rinascimento,Umanesimo (trad. di Delio Cantimori-Firenze 1935)

J. BURDACARDT: La civiltà del Rinascimento in Italia-Basilea 1860

D. CANTIMORI: La periodizzazione del Rinascimento in”Studi di storia”-Einaudi-Torino 1959

F. CHABOD: Il Rinascimento in”Questioni di storia moderna”-Milano-Marzorati 1951

B.CROCE: Teoria e storia della storiografia-Laterza-Bari 1923

B.CROCE: Scrittori del pieno e del tardo Rinascimento-Bari-Laterza 1945-1952

F.DE SANCTIS:Teoria e storia della letteratura italiana-Saggi critici-I ed.

(Napoli,Morano) 1870

C. DIONISITTI: ”Discorso sull’Umanesimo Italiano”-Chierici e laici” in”Geografia e storia della Letteratura Italiana”-Torino-Einaudi 1967

E. GARIN: ”Umanesimo e Rinascimento”in”Problemi ed orientamenti critici-Marzorati-Milano 1952

E. GARIN:”Medioevo e Rinascimento”-Laterza- Bari 1954-

E:GILSON:”Filosofia medievale ed umanesimo”-Vallecchi-Firenze 1932

H. HAYDIN: ”Il Controrinascimento”-Bologna-Il Mulino 1968

G. PROCACCI: “Storia degli Italiani”-Laterza-Bari-1970-vol.I

O.KRISTELLER: ”La tradizione classica nel pensiero del Rinascimento”-trad.it.-Firenze 1965.

O. KRISTELLER:”La dignità dell’uomo” in “Canti rinascimentali dell’uomo ed altri saggi”- Firenze I978

G. SAITTA:”Il pensiero italiano nell’Umanesimo e nel Rinascimento”-Firenze 1960.

C. SEGRE”Edonismo linguistico del Cinquecento”in “Lingua,stile e società”-Feltrinelli-Milano-1963

 PRINCIPALI FONTI PER ALCUNI AUTORI CITATI

 CONDILLAC

Discours prononcè a l’Accadèmie le 22 decembre 1768- ed. Paris 1778

 CONDORCET

Esquisse d’un tableau historque ds progrès de l’esprit haumaine-ed. Paris 1929

 CRISOLORA

C. Cammelli : I dotti bizantini e le origini dell’Umanesimo- Firenze 1941

 D’ALEMBERT

Discours prèliminaire a l’Enceclopèdie française in J .Le Rond

D’Alembert- Melange de philosophie,d’histoire e littérature- Amsterdam 1739

 ERASMO

R.H. BANTAN : Erasmo della cristianità- Sansoni- Firenze 1970

Opus epistularum ed. P.S. Allen- I-Oxford 1906

 

FICINO

Opera- I ed.-Bailea 1576

 

GALILEO

Opere di G. Galileo- a cura di F.Brunetti-Torino 1964

 

HEGEL

Lezioni sulla filosofia della storia a cura di G.Calogero e C.Fatta- Firenze 1941

Lezioni sulla storia della filosofia a cura di Codignola- Firenze 1930

 HERDER

Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità-a cura di F.Venturi-Torino 1951

 LUTERO

Scritti politici e scritti religiosi- Utet- Torino 1951

 PALMIERI

Della vita civile a cura di F .Battaglia- Bologna -1944

 ROUSSEAU

Discours sur les sciences et les arts,in Oeuvres complètes, sous la direction de B.Gagnebin et M. Raymond III-Parigi 1964

 SALUTATI

Epistolario-ed.Novati-Roma 1893-

 VALLA

In sex libros Elegantiarum paefatio ed. e trad. di E. Garin in Prosatori latini del Quattrocento-Firenze 1941

 VOLTAIRE

Essai sur le moeurs ed. R.Pomeau-Parigi 1963-

 NOTA DELL’ AUTORE

La trattazione svolta è orientata ad una specifica funzione didattica e alla necessità di sintetizzare i nuclei fondamentali di un periodo tanto ampio della Letteratura italiana ed europea quanto vivo di istanze e tensioni ideologico-culturali.
Profondamente convinto che la perspicua comprensione del fenomeno culturale, anche in chiave filologico-critica, deve essere funzionale alla propedeuitica dello studio letterario per gli alunni, infatti, ho cercato di cogliere gli aspetti salienti della temperie umanistico-rinascimentale, articolando il discorso in itinerari diversi, ma che possono unificarsi nell’azione didattica oppure differenziarsi nella proposizione di percorsi, da riferire alla “species” della scolaresca e all’ordine di indirizzo.
Invero, come si può dedurre dai segmenti argomentativi, è stata mia cura non neglegere la parte meramente contenutistica per approdare poi, con l’ausilio delle critiche più recenti ed accreditate, a problematiche che possono essere oggetto di approfondimento nella classe.

Si indicano alcuni percorsi impliciti nell’enunciazione dell’argomento trattato:

1) “La nuova dimensione dell’uomo tra microcosmo e macrocosmo”

( itinerario che può essere affrontato in ogni tipo di indirizzo scolastico, ma che deve essere approfondito con il docente di filosofia negli istituti che contemplano lo studio della disciplina..)

2) “Il principio di “natura” e “ragione”e la lezione del classicismo”.

E’ un percorso, che si suggerisce in specie per l’indirizzo classico e che dovrebbe coinvolgere l’azione didattica integrata dei docenti di italiano,di lettere classiche e di filosofia.
L’aspetto multidisciplinare potrebbe diventare, in tal modo, caratterizzante di un nuovo modo di intendere il “classicismo dinamico” proprio dell’età umanistico-rinascimentale e al contempo tenderebbe a sviluppare le categorie di pensiero, che sottendono ogni grande processo culturale dell’umanità . Con specifico riferimento all’argomento in oggetto sarà obiettivo fondamentale delineare il “continuum” tra mondo classico e mondo moderno.

3) “La funzione degli intellettuali”.
Il percorso può essere rivolto agli studenti di ogni tipologia di indirizzo .Gli strumenti critici, di cui si dovrà servire il docente saranno in prevalenza quelli desunti dalla critica storica ed antropologica e serviranno a fornire competenze agli alunni sul concetto di “funzione della cultura” nel tempo correlatamene alle conoscenze riferibili.ad ogni contesto scolastico e/o indirizzo. Tale percorso potrebbe essere strategico e propositivo per lo studio della letteratura italiana in momenti diversi.
4) “L’umanesimo filologico di L.Valla e l’umanesimo evangelico di E. da Rotterdam”.

Questo percorso dovrà essere inteso come una specifica e puntuale strategia didattica per avvicinare gli alunni al metodo filologico. Convinti come siamo, in effetti,che la filologia debba sempre coniugarsi alla filosofia per una corretta ed autentica interpretazione del “dictamen” degli autori e del significato delle loro opere afferenti ad un tempo storico e metastorico, è ineludibile la lettura diretta dei testi con la loro polisemia interpretativa per affrontare un discorso puntuale, coerente e non sovrastrutturato.

Anche questo percorso può avere una valenza didattica generale formativa nel graduale processo apprenditivo-cognitivo dei discenti in diversificati momenti della dinamica curriculare.

5). “La riforma luterana e la dottrina erasmiana: analogie e differenze”.

Questo itinerario dovrà essere approfondito in ogni indirizzo di studio possibilmente con la compresenza del docente di religione e con il docente di di filosofia, per gli istituti, che prevedono lo studio della disciplina.

Potrebbe essere un momento altamente formativo per tutti i discenti, che approfondiranno la tematica della “storia della religione nel tempo” con tutte le implicanze di valore ideologico riconducibili, però, alla contestualità storico- antropologica del tempo.

Anche per questo percorso si suggerisce la lettura di testi significativi che supportino gli itinerari di pensiero congiuntamente all’ausilio di strumenti critici aggiornati.

6) “La crisi dell’età umanistico-rinascimentale riflessa nelle opere di L.Ariosto e N. Machiavelli”: propone un percorso, che sempre movendo dalla lettura diretta dei testi, offra agli alunni la possibilità di accostarsi alla critica contemporanea ed al concetto di “controrinascimento” in chiave storico-sociale.

7) “L’età umanistico-rinascimentale precorre l’età dei lumi”. In questo percorso, giuste le annotazioni addotte nell’argomentazione, è possibile chiarire il rapporto età umanistico-rinascimentale con l’età illuministica con accurata esemplificazione.. Questo percorso appare di fondamentale importanza perché, interagendo direttamente con la parola dei filosofi illuministi, si approda a forme di conoscenze desunte dalla lezione degli autori più significativi del tempo e si configura in modo paradigmatico il concetto di “continuum” nella diacronia ideologico-culturali di successioni epocali .Questo itinerario , particolarmente indicato per i licei classici e scientifici, che potranno avvalersi del docente di filosofia, può realizzarsi anche negli istituti di altro indirizzo con un’oculata scelta dei “loci” da sottoporre alla lettura dei discenti da parte del docente di lettere italiane e storia.

8) “L’età umanistico-rinascimentale nel pensiero dei filosofi dell’idealismo romantico da Herder ad Hegel”. Questo percorso, che integra quello immediatamente precedente, dovrà avvalersi della medesima strategia didattica e dovrà condurre gli alunni al concetto dell’epistemologia critica nel campo letterario e alla concezione polisemica della cultura dal campo storico a quello letterario a quello filosofico.

9) “L’attenzione al fenomeno linguistico- L’”edonismo linguistico”, inteso come “categoria estetica”. .Questo percorso comporta una particolare attenzione da parte del docente in quanto, oltre a fornire opportuni strumenti critici per la comprensione plurivoca e pluridimensionale dell’argomentazione, oggetto di trattazione, potrebbe diventare propedeutico all’educazione linguistica, oggi tanto raccomandata dai programmi ministeriali, e prodromico ad uno studio letterario, che nella “langue” e nella “parole” rinvenga il momento ideativo-creativo dell’autore in senso meramente artistico ed in chiave antropologico-sociale. Il che sarà, inoltre, funzionale all’operazione dell’analisi del testo letterario, tanto richiesta dai vigenti programmi e dalla critica contemporanea, ma, ahimé ,in uggia , appare, o almeno non debitamente presa in considerazione né da docenti, né da alunni.

Guido Guinizzelli

Al cor gentil rempaira sempre amore

CONTENUTO

La prima stanza ww.1-10 dichiara che l’amore ha la sua dimora nel cuor gentile-amore e cuor

gentile sono presenti l’un l’altro come creati insieme,come la luce e il calore del fuoco.

Seconda stanza(ww:1-20)-Si chiarisce la dinamica dell’innamoramento secondo le nozioni di potenza ed atto proprie della filosofia aristotelica,con esemplificazioni tratte dalla filosofia naturale-Come il sole purifica la pietra preziosa e la rende atta a ricevere le sue proprietà dalla stella, cosi’ la natura crea l’animo nobile,tale che possa per effetto della donna innamorarsi.Si stabilisce dunque questo sistema di anologie-sole/natura.pietra preziosa,animo nobile,stella/donna.

Terza stanza(ww .21-39) si ribadisce la natura d’amore che può dimorare solo nel cuore gentile,come il fuoco per natura non può che stare sulla cima della torcia:allo stesso modo una natura ignobile è incompatibile con l’amore come l’acqua con il fuoco.Amore elegge a dimora il cuor gentile ,.perché è affine a sé come il diamante si trova incluso nel minerale di ferro.

Quarta stanza(ww.31-40 Definizione di cuor gentil che si identifica con la nobiltà che non è nobiltà di stirpe,ma nobiltà d’animo.La nobiltà di stirpe non vale nulla di per sé,così come il fango rimane vile per quanto il sole lo riscaldi.Invece il cor gentile è come l’acqua che conduce i raggi della luce;è ricettivo cioè alla virtù emanata dalla donna.

Quinta stanza(ww.51-60) Dio rimprovera il poeta di aver usato la sua divinità come paragone per un oggetto profano.Le lodi si addicono solo a LUI e alla VERGINE. .Il poeta si scusa dicendo che fu indotto a farlo dall’aspetto angelico della sua donna.

e
INTERPRETAZIONE STRUTTURALE DI D’ARCO SILVIO AVALLE
Il critico fornisce un’interpretazione strutturale della lirica alquanto interessante.Egli definisce la canzone come un psicodramma,dove i singoli personaggi hanno un ruolo preciso.Primo fra tutti AMORE (A),poi CUORE(puro e gentile) (+ b) e quindi NATURA(c) ,che crea Amore e ingentilisce il cuore.Infine la Donna(d) ,nei confronti della quale l’uomo manifesta obbedienza in quanto fornito di gentil core. I primi due personaggi sono inscindibili e legati da una serie di analogie.-
 
1..1.la verdura(v.2) sta all’”ausello”
2.il sole (v:5) sta allo”splendore”
3.la clarità di foco(v:10) sta al “calore”.
4. la pietra preziosa sta alla”vertude” o al “valore”( i due termini sono sinonimi(w:12,13,17)
5.il “doplero”sta al “foco”
6.la “miniera di ferro sta ad “adamas”
/. Il “cielo”(w:40) sta alle “stelle e allo splendore”.
Gli equivalenti analogici riferibili al segno negativo(-B) sono”aigua” ww26 e29 e il fango w.31 e34-amdedue connotati dalla “freddura”.
La natura è paragonata al sole(w.14 e16)- il quale toglie quello che è vile in una pietra(-B)-rendendola in tal modo”gentil cosa(v:14) o “preziosa.
L’itinerario seguito dal poeta è di tipo sillogistico-NATURA(c) agisce sul CUORE (impuro-b) e lo rende gentile(+b)-A questo punto il cuore gentile(+B) è atto a ricevere AMORE(A).Interviene,indi,l’agente esterno”la donna” a favorire l’intervento di “amore” in”cuore gentile””
 

PAROLA CHIAVE
.GENTILE.Il termine che originariamente deriva da”gens”,appartenente o discendente da una casta,che ne definisce la “nobilitas” di origine,adesso connota una nuova visione del mondo e semantizza un sistema di comportamenti e di fenomeni sociali del momento storico di appartenenza dell’autore(intertestalità con la storia-avvento del Comune-fervore della vita cittadina borghese.Secondo Parodi con Guinizzelli assistiamo ad una vera rivoluzione nel campo sociale e culturale.- L’amore, che si canta non è più quello per la castellana,ma per la donna che a quel tempo si mescolava nel fermento della vita cittadina,che peraltro aveva valorizzato la funzione rinnovatrice di una società borghese,che si affacciava con novità d’intenti nella vita del tempo,esprimendo nuovi valori on legati alla”gens”,ma al proprio valore,alle proprie abilità che aprivano nuovi orizzonti non solo nel campo economico-politico,ma soprattutto nell’ambito etico-spirituale.
                                                                                                          INTERTESTUALITA’ con DANTE
Non possiamo non riconoscere una decisa intertestualità tra la canzone guinizzelliana e la terza
Canzone del Convivio”Le dolci rime d’amor,che io solia”.La canzone,che,infatti,Dante scrive in polemica con Federico II,che riteneva che la”nobilitas”risiedesse nell’appartenenza alla”gens” recita cosi’.
Le dolci rime d’amor ch’io solia
cercar nei miei pensieri,
convien ch’io lasci ……….
E poi che tempo mi par d’aspettare,
disporrò giù il mio soave stile
ch’io ho tenuto nel trattar d’amore
e dirò del valore,
per lo qual veramente om è gentile….
Non c’è dubbio che Dante nello scrivere la canzone aveva presente Guinizzelli,che peraltro apostrofa nella Commedia(Purgatorio XXVI w.97 sgg.”…padre  mio e degli altri miei migliori che mai/rime d’amor usar dolci e leggiadre”.L’intertestualità con Dante,inoltre,ci fa comprendere anche una certa parentela spirituale tra i due poeti,dittatori e servi di Amore,ma che dell’amore vivono un’esperienza tutta mistica e trascendentale. E sarà proprio quest’esperienza che farà levitare al “peregrino errante” la sua più alta poesia,che esprime liricamente l’epos della vita di uomo nel transito dall’umano al divino.Ci pare opportuno,pertanto,intertestualizzare per le profonde radici ideologiche ed etico-spirituali i versi danteschi,che leggiamo nel canto XXIV del Purgatorio e che seguono il richiamo di una nota canzone della “Vita nova” “Donne che avete intelletto d’amore”per bocca di Bonaggiunta Orbiciani(w.52 sgg.) “Io son un che quando/ Amor mi spira nota e a quel modo/che ditta dentro vo significando…………”Dante non poteva meglio definire il concetto di dolcestilnovo già delineato nelle”Dolci rime d’amor ch’io solia”tutta l’avventura mistica di un animo che contempla l’”amor intellectualis” congiunto con l’”amor Dei”
Emblematico è il ricordo della canzone”Donne che avete intelletto d’amore” con preciso richiamo ai principi della filosofia tomistico-aristotelica: Il percorso che da Guinizzelli va a Dante è,per dirla con S:Bonaventura”itinerarium in mentem Dei”.Abbiamo accennato alla filosofia tomistico-aristotelica in Dante per compararla con quella guinizzelliana.Come abbiamo avuto modo di notare nella canzone presa in esame Guinizzelli con specifici campi semantici evidenzia peculiarità del pensiero tomistico-aristotelico con particolare riguardo al concetto di potenza-atto.Il che può esemplato nella canzone guinizzelliana dalla presenza del sole che purifica la pietra e la rende potenzialmente capace di particolari virtù così come nell’uomo la donna infonde la virtù d’amore nel cuore gentile.Ma naturalmente la speculazione è rivolta alla contrapposizione tra intelletto passivo ed intelletto agente. Per Aristotele l’intelletto passivo è un processo mentale che si mette in movimento attraverso l’esperienza,attraverso l’esperienza dalla quale ogni conoscenza è sempre condizionata – L’intelletto passivo rimane,pertanto,opaco,mentre l’intelletto attivo “amor che move il sole e le altre stelle”trascende i limiti dell’umana condizione; è luce,rivelazione dell’Eterno,separato dalla terreistrità e tende a congiungersi all’Uno-Tutto e all’Assoluto.E’ il mondo della luce e della rivelazione e,ma un “velo”distanzia la conoscenza sensibile da quella divina,che è”lumen aeternitatis atque veritatis”Par: Canto I (v:1”La gloria di Colui che tutto move/per l’universo penetra e risplende/ in una parte più  e meno altrove”- Il limite tra la condizione umana e quella divina sempre nel primo canto del Paradiso viene chiarito dal fatto che Dante non riesce a guardare il sole,mentre Beatrice,pura creatura di Dio riesce a rimirarlo “come aguglia unquanquo s’affisse mai”.Per Guinizzelli come per Dante pervenire alla contemplazione mistica è impossibile senza l’intervento divino ovvero l’azione della donna venuta da cielo in terra a miracol mostrare”,oppure come nel caso della Commedia della donna discesa dal cielo a soccorrere “l’amico suo e non della ventura”.Questo discorso peraltro viene spiegato da da Virgilio,che incoraggia il suo discepolo a non fermarsi se “quella(Beatrice)nol ti dice qual lume fia tra il vero e l’intelletto”(Purg.canto VI w.42 sgg.) Abbiamo evocato questi”loci” danteschi per compararli con i versi 41-50 della canzone guinizzelliana”Splende ‘n l’intelligenza de lo cielo…… quella che intende suo Fattor oltre il cielo”.Noi ci permettiamo di seguire di seguire la lectio difficilior”velo” e non “cielo”.
Le ragioni sono implicite nel discorso che abbiamo innanzi esposto e vengono chiarite dal Sapegno,che così spiega “oltre il velo”.Sapegno è un fervente sostenitore della “lectio difficilior”.L’intelligenza angelica,la quale”intende il suo Fattor oltre il velo”(così spiega lo studioso) vale a dire che l’intelligenza angelica intende in modo apertissimo senza l’impedimento del velo corporeo che offusca le intuizioni spirituali dell’uomo. A livello semantico sono da rilevare le parole CIELO/VELO. La ripetizione del verbo”splende” riferito al w.51 a Dio creatore” in analogia con il “sole” e nel w.48 con “la bella donna” e al w.47 a “vero”.Sono tutti termini filosofici che originati da una profonda speculazione introspettiva si trasferiscono nel mondo della poesia,che sarà ricondotta sul piano dell’Eterno da Dante